Usiamo i cookie per garantirti la migliore esperienza sul nostro sito web. Navigando su questo sito dichiari di accettare le nostre Cookie Policy & Privacy Policy.
We use cookies to ensure you get the best experience on our website. By browsing this site you agree to our use of cookies Cookie Policy & Privacy Policy.

Contact Info

  English EN   Italiano IT  

CINEFORUM NOVEMBRE 2021

cineforum-novembre-2021

Schede film


DODESKADEN (どですかでん) di Akira Kurosawa 1970

di Riccardo Bernini

Girato nel 1970 il film è basato sul romanzo di Shūgorō Yamamoto: “La città senza stagioni (Kisetsu no nai machi). L’opera è stata candidata all’oscar come miglior film straniero.

Il film è strutturato ad episodi è narra le vicissitudini umane e quotidiane di un gruppo di persone che vivono in una baraccopoli ai margini della grande metropoli. Nella pellicola di Kurosawa tutto è sospeso in una sorta di realtà onirica. Il film segue un percorso lineare del racconto che consente l’incrociarsi delle storie, senza l’idea di una separazione netta tra una vicenda e l’altra.

I bassifondi sono qualcosa che, da sempre appartiene al bagaglio estetico del nostro Autore, il quale ne ha fatto, a seconda dei casi, un panorama per l’analisi antropologica degli esseri viventi. Potremmo quasi dire, senza timore di smentita che Akira Kurosawa ha tratti neorealisti ed uno spirito che si accorda al modo europeo di intendere il cinema.

L’inizio del film vede un ragazzo che allucina il sogno di essere un tranviere e che, affetto da schizofrenia precoce, vede, effettivamente, il tram ed è convinto di essere a capo del settore tecnico di una immaginaria circoscrizione. Sarà attraverso la sua presenza che saremo guidati tra un episodio e l’altro, proprio come lui rappresentasse una ideale guida sulle rotaie della vita.

Kurosawa costruisce un’etica per immagini che assolve da qualunque colpa e proprio come vale per il neorealismo, in Italia, con De Sica e Zavattini, soprattutto, vede in ciò che si compie entro lo spazio delle baracche; certamente sgradevole, impreciso, cadente, un qualcosa che ha del miracoloso, anche nella sua declinazione tragica. Non a caso i protagonisti delle vicende narrate: un calzolaio il quale lascia che un ladro lo privi dei soldi ma non della cassetta con gli arnesi di lavoro, un vecchio ed un bambino che mangiano del pesce avariato e il nostro tranviere, sono accumunati dalla luce della grazia, della gentilezza e dello stupore verso il silenzio particolare delle cose belle. Ma cosa rappresenta la luce per un giapponese?

Il film in oggetto ci dice, soprattutto sulla precarietà del presente, sulla sua fugacità. È da ricordare la dimensione, perennemente ontica del giapponese quale persona fisica che costruisce la sua casa in pianura per affrontare meglio tifoni e terremoti.

Nel film ci viene spiegato che: in quanto non ama la luce diretta del sole ma, piuttosto, il suo riverbero dorato edifica case, meno solide, ma di legno che conferiscano una luce intima a tutto ciò che è toccato da questa stessa, anche si trattasse del carattere intimo di una candela che, mossa da un vento leggero, facesse notare la differenza qualitativa tra ombra ed ombra. Il film può essere anche letto come un elogio del carattere delicato di una certa estetica che è connaturata allo spirito del Giappone, il quale, parte dal basso per arrivare in alto, laddove gli occidentali fanno il percorso inverso.

Allora, davvero, Kurosawa, esplora il tramonto di un Giappone minore trovandone i punti cardinali di una cartina tornasole che valga per il passato ed il presente.


HUNGRY HEARTS di Saverio Costanzo 2014

di Riccardo Bernini

Il film risale al 2014. Racconta la storia di una giovane coppia, lei italiana, lui americano, si conoscono per caso dentro la toilette di un ristorante cinese. Si innamorano appassionatamente. Lei, dopo poco, resta in cinta, i problemi non tardano ad arrivare. Lei ha un atteggiamento estremamente chiuso nei riguardi del mondo e di tutto ciò che le accade, anche la gravidanza è difficilissima, certamente non serena. La medicina ufficiale ha sempre meno presa su di lei e sul suo modo di vedere le cose. La spirale discendente inizia quando la giovane si convince che le parole di una indovina – “c’è un bambino indaco dentro di te” corrispondono a verità: inizialmente, certo, minimizza, col marito fa come se la cosa non la riguardasse ma la spinta ossessiva è sempre più forte e penetrante. Mina, questo il nome della ragazza, diventa intrattabile e scostante con tutti. Jude, il marito scambia gli atteggiamenti di Mina per istinto materno ma, ben presto lei siola la famiglia dal resto del mondo e sviluppa un atteggiamento di ipervigilanza ed una ossessione compulsiva per l’igiene. Presto la cosa degenera in un atteggiamento misofobico che assume sfumature depressive, violente e patologiche che finiscono con il limitare il suo rapporto col marito che comincia a vedere come un nemico.

Jude, per suo conto comincia a frequentare pediatri che lo avvertono del pericolo in cui si trova il neonato, qualcosa che potrebbe raggiungere uno stato di cose irreversibile.

Anche se, almeno inizialmente, Mina sembra cedere alle pressioni del marito, in verità continua con la sua idea distorta da quella che, oramai, è una malattia.

Saverio Costanzo dirige il film con uno stile quasi post-neorealista, ponendosi a cronista trasparente delle vicende narrate. Si attiene, molto scrupolosamente al romanzo (“Il bambino indaco”) di Marco Franzoso a cui è affidata anche la sceneggiatura.

La pellicola è girata, completamente in digitale, ed ha una crudezza chirurgica nell’assemblare le immagini, anche negli iniziali momenti edificanti, questo, quasi a dire, che non vi saranno reali momenti edificanti.

Il film potrebbe essere visto come un pezzo di teatro da camera che riproduce le dinamiche drammaturgiche vicine ad August Strindberg ad esempio, con la differenza che la donna è un nemico involontario di se stessa, spinta com’è da un istinto materno che, non solo è autodistruttivo ma si rivolta anche contro il bambino e la sua incolumità.

La pellicola si affianca al film di Kurosawa, Dodeska’Den proprio per l’atteggiamento antropologico dei due registi ma segna anche una differenza sostanziale: Costanzo, da occidentale e italiano rigetta il miracoloso e assume un atteggiamento più psicoanalitico, ove l’autoanalisi distrugge il soggetto che si flagella nelle sue paure trascinando con sé tutti quanti in una dinamica malata. Kurosawa lascia intatta la speranza nel domani proprio perché la magia è qualcosa che fa parte di tutti gli esseri viventi nati come parte delle diecimila creature e non – come ci viene detto in occidente – quale misura di tutte le cose.


 




Information
EP
EP
EP
EP
EP
EP'
EP
EP
EP
EP
EP
EP
EP
q