SI PUO’ FARE di Giulio Manferdonia 2008
di Riccardo Bernini
La trama del film ha molto in comune con moltissimi film che potremmo definire, con una semplificazione di comodo: socialmente impegnati ma, certamente ha una caratteristica affatto peculiare che lo distingue da pellicole consimili. Il film è, in effetti, tratto da una vicenda realmente accaduta: sullo sfondo della Milano degli anni Ottanta (il film è del 2008), la storia segue il destino di Nello, un sindacalista che ha subito un forte ostracismo da parte dei compagni per aver scritto un libro sull’impatto e la necessità del libero mercato in una società che si affacci verso un’Europa economico centrica. Ovvio che per il nostro regista Manfredonia la premessa è solo un pretesto per sottolineare il carattere del protagonista – aperto ad un dialogo fecondo tra liberalismo e lotta di classe (intesa nel senso più vero di sviluppo verticale e consapevole dell’individuo. Da qui il film accelera: Nello viene trasferito alla Cooperativa 180, una delle tante sorte a seguito della legge 180 per accogliere i pazienti dimessi dai manicomi: il rapporto con loro si rivela, almeno inizialmente difficile finché Nello non decide di coinvolgere tutti nelle decisioni da prendere, ascoltare le idee di ognuno strutturando un ambiente simile a quello di una fabbrica ove sono gli operai a prendere tutte le decisioni un modo corporativo col risultato di farli vivere da persone e non più da pazienti. Ovvio che la sua iniziativa si scontrerà con diversi ostacoli.
Volendo essere pignoli si potrebbe liquidare il film con l’etichetta che vede la solita variazione sul tema del disabile mentale inserito nel contesto di una società di normodotati che sono troppo impegnati a paragonare le altezze per poter accettare il pazzo entro il loro schema, tutto simmetrico – che poi è tutto da vedere – di valori.
Occorre osservare come, rispetto a questo film, tutto sia potenzialmente in pericolo e possa risultare o scadere nel comico più blando. Intanto il cast, formato, tra gli altri, da Claudio Bisio e la Monti e poi la formula che, da subito, capiamo essere quella della commedia agrodolce che, almeno nelle premesse, non vuole definitesi nettamente. Ovvio che, quando irrompe il dramma, per effetto dell’approccio neorealistico – la vera pietra al collo del cinema italiano – la commedia umana si definisce meglio nei contorni. Il riferimento al neorealismo non è casuale, il fatto di considerare la persona prima del malato di mente è alla base del messaggio del film che racconta le conseguenze, tanto negative, quanto positive di una legge, quella Basaglia, ancora oggi rivoluzionaria. In particolare, come apprendiamo dalle note di regia od anche in rete, il film fa riferimento alla cooperativa Noncello di Pordenone, che, però è servita solo come ispirazione, sappiamo, in effetti, che la sua storia è stata molto diversa: il sindacalista-direttore – lo stesso che ha ispirato il titolo, poiché era proprio lui ha dire sempre ai pazienti: “Si può fare” – infatti era stato assunto nel 1990 dalla Noncello con un compenso annuale di 56 milioni di lire, quando la cooperativa aveva circa 400 soci e fatturava 7 miliardi l'anno. Il film è dedicato alle oltre 2.500 cooperative sociali esistenti in Italia e ai 30.000 soci diversamente abili che vi lavorano.
DON’T WORRY di di Gus Van Sant 2018
di Riccardo Bernini
Il film prende a pretesto la storia del fumettista americano John Callahan per raccontare una storia di redenzione intesa, come scoperta di sé stessi dopo aver toccato il fondo, anche umanamente, la miccia che fa detonare il tutto è l'alcolismo dato che il nostro protagonista si muove, vive e respira in funzione dell'alcol e le sue tentazioni. Sa di non poterne uscire senza pagare un alto prezzo, anche se in realtà non se ne rende conto finché non resta paralizzato e questo è l'innesco di tutta la vicenda, il fondamento stesso del film: da un lato c'è una profonda ironia che soggiace a tutta la sceneggiatura e dall'altro ci troviamo di fronte ad un profondo dramma con tinte anche parareligiose.
Una volta compreso che ha un problema il protagonista si rivolge agli Alcolisti Anonimi lì trova la sua guida in un uomo che è animato da una sorta di fede religiosa ma vive il tutto secondo una sua visione affatto personale e concilia questo suo modo di vedere le cose con una radicale paura di vivere senza filtri la propria vita: sostanzialmente anche chi dovrebbe aiutare il nostro protagonista, in vero, vive il dramma di dover portare una maschera per poter essere accettato ed è attraverso questa maschera che il John lo conosce, lo incontra e decide di farsi seguire da lui: il film racconta una via verso la consapevolezza, anche attraverso l’accettazione della propria menomazione fisica ma mostra anche come, nonostante una paralisi, il protagonista sperimenti un risveglio attraverso l'uso del fumetto, l'uso dell'arte e come, questo fatto, consenta il raggiungimento della propria anima attraverso l'arte stessa e ci fa capire, ancora di più, come la condizione di disabilità porti, inevitabilmente, a sviluppare delle antenne che ti consentono di percepire e capire ciò che per altri è fuori misura, ciò che per altri è sostanzialmente inaccettabile, proprio per questo, alla fine dei conti, sarà John ad aiutare il suo sponsor, spingendolo a strapparsi la maschera.
Questa capacità di capire e comprendere consente di poter afferrare sfumature che, altrimenti, sarebbero invisibili consente di scorgere i graffi dell'anima ed è proprio questo che la storia racconta: questo personaggio che si sentiva inadeguato, credeva che non avrebbe fatto niente nella vita poi però riesce addirittura a sviluppare un discorso artistico che utilizza l'ironia, verso sé stesso, come disinnesco della profonda depressione che lo aveva colto proprio nel momento in cui ha realizzato di essere paraplegico, che non ci sarebbe stato ritorno da questa condizione e questo ha fatto sì che non rimanesse fermo nella propria condizione di Pupazzo paralizzato impietrito ma che riuscisse addirittura ad aiutare a salvare proprio colui che aveva visto come una guida: questa condizione di ultimo, questa condizione di reietto gli ha consentito di arrivare a toccare corde di una sensibilità che, altrimenti, non si sarebbe lasciata afferrare così facilmente.
Il film racconta anche il ruolo dell'arte nella vita sociale e di come la vita personale cambi e muti proprio attraverso i rapporti sociali che tutti noi possiamo intrecciare, anche in condizioni di profonda limitatezza, anzi, occorre proprio guardare nel limite per potersi capire e comprendere e questo va inteso come capacità di comprendere le cose ed aver cura di sé anche nei momenti in cui saremmo convinti di non riuscire a farlo, persino in una condizione di perfetta salute, di quella che pensiamo essere piena consapevolezza: in vero, non ci accorgiamo di quello che ci circonda, di quello che ci sta succedendo, in realtà non percepiamo il cambiamento, al contrario, in una condizione, ad esempio, di completa paralisi anche il minimo cambiamento viene percepito, viene addirittura accettato. Il protagonista si rende conto che è lui l'unico responsabile della propria condizione e che necessario trovare un senso a quello che appare come uno stato ineluttabile della propria vita.
In fondo è anche quello che raccontano le vignette di John Callahan: affondano, con ironia, la lama nelle carni di una società ormai non più abituata percepirsi come tale perché vittima di un rumore di fondo molto più forte delle parole, molto più forte dei pensieri. È chiaro che il film ha il carattere del dramma sociale che usa la commedia come grimaldello per poter dire cose che, altrimenti, sarebbero improponibili: il personaggio, in quanto artista, in quanto intellettuale che vive del proprio lavoro rappresenta insieme una contraddizione ed un esempio di vita alla scoperta di una nuova dimensione di sé stessi.
NON CI RESTA CHE VINCERE di J. Fesser 2018
di Riccardo Bernini
La trattazione della disabilità, in una forma che si possa dire comica, è un qualcosa che ha, da sempre fatto parte del cinematografo: il 'freak', che fosse o meno, disperato od espediente comico, caratterizza e continua a caratterizzare l'immaginario filmico.
Nel caso di questa commedia spagnola ci troviamo di fronte a qualcosa che viaggia a mezzo tra la satira e la denuncia sociale in un'atmosfera che pare ricordare - almeno nei modi del protagonista maschile - un atteggiamento discriminatorio figlio di altri tempi.
Il signor Marco Montes, vice allenatore di una squadra di pallacanestro si mostra, da subito, poco incline verso qualcosa che non corrisponda ad un suo ideale di perfezione estetica.
Il destino ci apparecchia quasi sempre una situazione scomoda che sconvolge i nostri piani: dopo un litigio durante una partita, si ubriaca e provoca un incidente, certo, non grave ma sufficiente a comportare il ritiro della patente ed una condanna al carcere. È a questo punto che la cosa svolta verso la commedia morale. Il nostro Marco viene condannato a mettere il suo talento di allenatore a servizio di un centro culturale per disabili, nello specifico, dovrà allenare una squadra di pallacanestro composta, interamente, da diversamente abili.
Inizialmente il nostro protagonista crede di trovarsi di fronte a dei minorati mentali visto che non danno segno di capire nessuna delle sue indicazioni salvo poi rendesi conto che erano loro stessi ad esagerare la loro inabilità proprio per metterlo alla prova ed osservare le sue reazioni.
il film, nonostante presenti qualche ingenuità di troppo nella rappresentazione del disabile - a volte, troppo 'anima bella' e gioconda contro una società che sembra solo capace di disprezzare o temere la diversità - resta una pellicola preziosissima perché entra nel merito della disabilità, legata al mondo del lavoro ed alla vita di relazione, certo ha il grosso difetto di schiacciare tutti i temi che tratta dentro le strette maglie del film corale ma il tema centrale resta saldo. Il vero disabile era dunque proprio Marco Montes che non riusciva a fare i conti con le situazioni che, troppe volte, ci impone la vita.
Il film, certamente, legge il tutto in una chiave molto leggera ma non dimentica mai di trarre spunto dalla vicenda per farci riflettere su come i punti di vista ci possano ingannare e su come possiamo, facilmente passare da osservatori ad osservati. Nei limiti del suo didascalismo il film riesce a non cadere nella facile trappola della lezione morale troppo semplicistica. Ovvio che siamo lontanissimi dal film d'arte ma è certo che si tratta di una pellicola necessaria.
VOGLIO SOLO ABBRACCIARTI di Akihiko Shiota 2014
di Riccardo Bernini
Semplificando potremmo dire che dietro ogni cosa, dietro ogni scelta c'è l'amore, ovvero: l'amore è a fondamento della vita stessa, è a fondamento del nostro vedere le cose. Questo sembra non fare eccezione rispetto a qualsiasi cultura, a qualsiasi angolo del mondo dopo, naturalmente, c'è un discorso legato a che cosa significa questa parola all'interno del contesto culturale in cui viene usata: in merito al Giappone la situazione è molto complessa perché, già la parola “amore”, in quanto tale, ha diverse declinazioni, diversi modi di essere letta ed anche di essere detta, poi abbiamo la questione legata la disabilità nel paese del Sol Levante e questo è qualcosa che richiede un discorso lungo e molto articolato poiché non è facile affrontare la questione anche rispetto alla nostra sensibilità.
Cominciamo col dire che, in Giappone, la deformità è considerata un peccato: all'interno di una cultura tradizionale, che non abbia fatto i conti con la contemporaneità, vi è uno scontro con la contingenza ed è difficile far dialogare i due contesti, è vero che il Giappone rappresenta, forse, il massimo grado di evoluzione capitalistica ed è un'immagine di modernità e tecnologia avanzate ma, dall'altro lato, non si è lasciato comprare in toto dall'America che ha cercando di colonizzarlo. Il Giappone ha sempre vissuto l'apertura all'occidente in una sorta di precario equilibrio: cercato di difendersi dalla contaminazione fino a che ha potuto, nel caso del nostro film siamo di fronte ad una storia d'amore che racconta e vuole capire la contaminazione fra il mondo della conformità e quello della diversità.
Ora, nel caso della nostra tradizione culturale è, forse, molto più facile accettare l'amore fra un disabile ed un normodotato anche se capiamo le oggettive difficoltà di questa relazione o pensiamo che vi siano perché giudichiamo la cosa, magari, solo dall'esterno; nel caso di una cultura come quella nipponica il discorso è ancora legato alla centralità della religione e delle tradizioni: il film è tratto da una storia vera, una storia d'amore che ha visto l'unione di due giovani, guidati da un sentimento che ha superato le barriere della convenzione.
La pellicola oscilla tra commedia e tragedia mostrandoci come siano proprio i protagonisti della vicenda a vivere il sentimento amoroso come qualcosa che non è influenzato da ostacoli insormontabili mentre intorno a loro, specie i familiari, vedono delle difficoltà che considerano oggettive, al contrario il film pone l'accento sul fatto che tali difficoltà sono soggettive a seconda di come devi affrontare la vita o devi affrontare ciò che ti si para davanti.
Il film è molto coraggioso considerando che in Giappone la diversità viene sempre o quasi sempre nascosta sotto il tappeto di una ipocrisia che vuole la conformità come regola principe del vivere sociale solo perché in questo modo è più facile controllare le conseguenze di ogni azione. Nel caso degli occidentali si accetta anche un profondo senso di incommensurabilità rispetto a ciò che accade poiché sì interpreta tutto alla luce di un destino inevitabile, un disegno di ordine superiore. In Giappone si tende a pensare che l'imprevedibilità ed il destino o l'impossibilità di calcolo rappresentino un problema con cui l'unico modo di fare i conti e cercare di evitarlo.
L'unico modo di evitare l'incontro con imponderabile è di evitare certi anfratti della vita stessa: nel film in questione i protagonisti non sono interessati alle conseguenze della vita quale nei termini del destino avverso ma sono, forse, più interessati a quelle che potrei chiamare le conseguenze dell'amore e queste ultime portano alla loro felicità che i due vedono nel coronamento di una vita insieme oltre ogni cosa, anzi, ritengono – e questo sarebbe molto shintoista - che il coronamento della loro vita insieme vada al cuore delle cose. Detto altrimenti: “il cuore delle cose” è nella vita di relazione, al di là di ogni dubbio.