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Cineforum Novembre 2014

cineforum-novembre-2014

Schede film

FUR 

di Riccardo Bernini 

Film particolare e raffinato rischia di essere vittima delle sue stesse premesse, puramente  estetizzanti, che paiono avere come scopo quello puramente speculativo del limite tecnico.  Difficile sarebbe andare oltre questa scorza di forzata abilità se non, si potesse fare  conto sulla abilità di due grandi interpreti che cercano l’intenzione al di là dell’intento  registico, in quanto a Shainberg si limita ad una asettica messa in scena del tema Freaks are out (i mostri sono fuori).     Se non evidenziassi che la New Line Cinema, casa di produzione del film, ha dato i  natali al Freddy Kruger di Wes Craven, farei un torto ad una fabbrica di sogni che, però ci ha  regalato anche una buona dose di incubi.    Detto questo il film vede il buon Robert Downey Jr. rivestire il ruolo del mostro di  turno che si fa succubo di una Nicole Kidman, perfetta femme fatale, suo malgrado, che  indossa la maschera della fotografa statunitense Diane Arbus, per intenderci quella che ha  dato a Kubrick l’ispirazione per l’iconografia di molti suoi film, specie lo Shining (1980) -  ovvio che allora si parla di una delle artiste cardine del secondo Novecento il problema sta tutto sulle basi dell’operazione: dramma borghese con una punta di horror.    Le cose stanno in questi termini: una fotografa, ancora casalinga con una macchina  fotografica comprende, perché ha riscontri esterni, di avere la capacità di fissare l’istante in  pellicola. Andare oltre colle spiegazioni sarebbe rovinare le altre, poche cose, interessanti per  lo spettatore.    Diremo solamente che, di striscio e nemmeno tanto volontariamente, si ripercorrono i  temi del mostro, ipertricotico (ricoperto di peli) esibito come fenomeno da baraccone, che è,  in vero, un uomo bellissimo che per una voglia od un capriccio la bella vuol rasare – qui non  siamo in territorio Lynchiano (Elephant Man (1980) o Eraserhead (1978) ) – dietro le belle parole della belva pelosa c’è anche un corpo piacevole che la bella vuole possedere, pensando così di assorbire, di lui, anche l’intima essenza che lei tanto bramava per poter così uscire  dalla sua condizione di brava casalinga di provincia. La morte dell’amato mostro genera i  giusti sensi di colpa nella normodotata che ha, beata, gli ormoni a posto ma ora, grazie al  sacrificio dell’eroe abnorme impara la lezione dell’artista libero ed è pronta ad essere una  artista vera.     Tocca sempre ad i migliori, gli handicappati in questo caso, il sacrificio, per aiutare i  normali a capire il loro posto nel mondo. Se si ricaverà questa lezione non si saranno sprecate  le due ore in sala. 


IL PAESE INCANTATO
i mostri che (si) possono amare
di Riccardo Bernini
Il film è dedicato all’assistente regista di Jodorowsky, (il Rosemberg della dedica nei titoli di
testa) un ragazzo affetto dalla sindrome di down che si è in seguito suicidato, per questo motivo
l’opera lo ricorda. Dico questo per aiutare il lettore e spettatore a comprendere meglio cosa ha
mosso il regista cileno verso il cinema dopo molti anni di regia teatrale.
Parafrasando Alejandro Jodorowsky: i mostri lo hanno, da sempre, interessato. Il Paese
Incantato è dedicato a questo amore per il deforme, il reietto dalla società. Immaginiamo il
giovane Alejandro che, dopo aver visto Il Gobbo di Notre Dame (1924) passa – parole sue – tutto
il giorno cercando di imitare l’attore che impersonava il gobbo.
Il mostro non è corrotto dalla lusinga della società che accarezza la prestazione,
ponendola, al pari dei soldi, al posto di Dio.
Dietro l’esordio cinematografico di Jodorowsky c’è un attacco diretto alla società che fa
sua urgenza la difesa del più forte a sfavore del più fragile.
Tratto da una commedia teatrale di Fernando Arrabal il film si inscrive all’interno del
movimento Panico: nato in contrapposizione al Surrealismo di André Breton voleva rompere con
gli schemi di un’arte che aveva trovato la sua rivoluzione in un pubblico da museo che
contempla e tesaurizza ma senza capirci granché.
Il Paese Incantato (1968) è una sorta di manifesto del Surrealismo Panico, dove Panico si
riferisce alla volontà della natura che, attraverso una incoscienza di tipo metafisico non bada ai
difetti di fabbricazione.
Secondo Jodorowsky Dio è una idea che occorre superare: lui è, di fatto, il Grande
Burattinaio che ha fatto del peccato la più grande arma ricattatoria che esista. Il mondo degli
adulti corrompe l’innocenza bambina attraverso il potere del giudizio mentre la natura, che ci
getta nel modo, è certo esente da colpe, per la natura siamo tutti perfetti, l’imperfezione arriva
con la razionalizzazione. Per questo Fando e Lis vanno alla ricerca di Tar: come una ultima
Thule è un luogo dove tutto è ancora possibile ma, oltre alla possibilità c’è anche la rovina o la
caduta dalla grazia. Quando, infatti, si diventa adulti si perde lo sguardo di meraviglia verso le
cose: il viaggio è metafora di una, trovata, età adulta in cui si scopre anche l’amore che nasce
dalla attrazione fisica, dalla sensualità e s’abbandonano i giocattoli ed i trastulli puerili.
È appena giusto che ogni giorno della nostra vita siamo costretti ad affrontare il diverso
che ha costruito la sua vita intorno a noi: per un figlio od un fratello disabile potremmo essere il
solo contatto col mondo, a volte la fatica di questo compito ci fa voltare le spalle. Il Paese
Incantato racconta una storia di amore e odio ma poi ancora amore andando verso un paese mai
visto che promette la pace interiore e la panacea d’ogni male fisico…
Un film che ancora fruga i nostri pensieri e ci abbandona lasciando i cassetti in disordine.


TEMPLE GRANDIN
la coscienza che va al cinema
Di Riccardo Bernini
Dopo il film di Barry Levinson con Dustin Hoffman sembrava che i film sull’autismo si somigliassero tutti,
storia finita: Rain Man (1988) era il meglio mai visto… tutti si domandavano se dopo la storia, romanzata,
del prodigioso Kim Peek – il vero uomo della pioggia – si sarebbe trovato il coraggio di riportare l’autismo
sullo schermo.
La risposta è stata affermativa, certamente, gli autistici facevano bella mostra nei gialli o thriller
dove le loro capacità potevano solleticare il pubblico: ricordo il piacevole Rosso d’Autunno (Silent Fall)
(1994) dove l’autismo è un codice che rimane segreto… e un bravo dottore, con l’armatura scintillante,
scioglie l’enigma, ma poco importa: il cinema che tratta la disabilità, spesso, vuole mettersi la coscienza a
posto e fare la morale… allora è strano che un film per la televisione si voglia discostare dai suoi
predecessori.
Temple Grandin (2010) è una biografia per immagini di una professoressa del Colorado con una
straordinaria attitudine per le invenzioni – non spettacolari ma utili – è un film per la televisione molto
onesto e ben realizzato che non gioca sui soliti, facili stereotipi che strappano la lacrima.
Il film infatti si avvede della consulenza della stessa Grandin, che collabora attivamente alla
sceneggiatura e non ci sono eccessi o sbavature, né eccessivi colpi di teatro.
La cosa più importante che il film mostra è il meccanismo attraverso cui Temple pensa la realtà. Lei
stessa si definisce un motore di ricerca vivente che pensa per immagini e le mette in relazione: grandi
concetti verso elaborazioni man mano più specifiche. Questo rappresenta davvero un contributo enorme
che questo piccolo film appalesa.
Mick Garris non è tipo da film d’autore ma ha una grande padronanza del mestiere, questo rende il
prodotto, non solo gradevole, ma anche solido, adatto ad ogni tipo di pubblico, senza scadere nel puro
esercizio didattico. Insieme a questo si può far conto su interpreti convincenti e un’ottima sceneggiatura.
Temple Grandin si è detta soddisfatta dell’interpretazione, molto aderente dell’attrice Claire Danes,
la quale cerca in ogni modo di fotografarla nei suoi atteggiamenti.
Un film importante, dove, per una volta, il soggetto dell’indagine è il primo a volersi indagare,
resecando il legame tra osservato ed osservatore.


CATTIVA di Carlo Lizzani

 

Di Riccardo Bernini

 

Film del 1991, unisce i temi del cinema di ricostruzione storica con alcuni aspetti dell’inchiesta documentaria: la pellicola vede la presenza di Giuliana De Sio che veste i panni di una donna della borghesia di inizio Novecento, lei manifesta quelli che vengono interpretati come segni di squilibrio a causa di un complesso di colpa che diverrà il perno attorno cui si consoliderà la storia del film.

Il film parte dal presupposto, vero, che la borghesia o la nobiltà, non fa differenza nasconde i suoi figli abnormi. La normalità era, per certi versi è ancora oggi, una norma, nel suo significato più stretto di legge, ma imposta dagli uomini.

L’opera di Lizzani non è certamente perfetta, né tantomeno spietata come Diario di una schizofrenica (1982) di Nelo Risi, purtuttavia ci conduce entro i labirinti di una mente affamata di verità: quando non si ha più nulla per cui vivere cosa ci resta da spartire colla vita?

Nella psicoterapia di stampo classico, quella di tipo empirico, il paziente era un oggetto di studio da disumanizzare ed analizzare al microscopio. Il film di Lizzani rappresenta un contributo importante poiché mostra il passaggio dalla psicologia empirica alla psicanalisi, evidenziando anche i pericoli di un rapporto medico-paziente troppo basato sul trasporto emotivo e l’attrazione amorosa.

Il paziente è una creatura umana prima di essere una persona che patisce. Nell’ambito di un cinema che voglia trattare la malattia mentale questo si colloca tra i pochi che vogliano indagare i metodi di cura per evidenziarne le differenze di carattere etico.

Desideriamo che risulti chiaro che non esiste cura rispetto al graffio dell’anima: la psicoterapia serve a prenderne coscienza, una voce interiore afferma al malato che ha un problema coi suoi stati interni ma non si tratta di una cura come quella derivata da terapie farmacologiche, riguarda di più qualcosa che muove dentro e che ci aiuta a convivere con un disagio rivelato ma inestinguibile.

Dalla pellicola di Lizzani si può benissimo evincere allora la differenza tra una cura empirica, che finisce per essere una vuota sperimentazione tra tentativi ed errori e la psicanalisi, un dialogo alla ricerca della chiave che blocca quella porta sul buio del complesso di colpevolezza.

Senza dubbio un film non privo di difetti ma che affronta coraggiosamente quello che, prima di Freud, era un tabu, una condanna senza appello o anche una morte civile.

 




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