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CINEFORUM NOVEMBRE 2015

cineforum-marzo-2017

Schede film


Ligabue di Salvatore Nocita

di Riccardo Bernini

Film per la televisione realizzato nel 1977, lo sceneggiato ripercorre, in maniera romanzata, la vita del pittore naif Antonio Ligabue, detto Toni: il regista si affida all’interpretazione di Flavio Bucci, allora poco noto, ma che, grazie a questo ruolo, arriverà al grande pubblico ed, in oltre, la sceneggiatura vede la partecipazione di un mostro sacro come Cesare Zavattini, autore di un poema in versi dedicato all’artista, il componimento è alla base del soggetto.

Il film, infatti, ci propone una visione tutta poetica di quest’uomo, che, oggi, la medicina ufficiale definirebbe un sociopatico.

Dal film si evince in effetti la difficoltà del nostro protagonista rispetto alle convenzioni sociali. Ogni contatto umano è estremamente difficile e la malia che infligge la sua mente può essere mitigata solo dalla pratica artistica: per Toni Ligabue il pennello è un attrezzo attraverso cui esorcizzare i suoi spettri.

Ligabue diceva di sentirsi come un animale e, che, quanto da lui prodotto, derivava dal trasformarsi, egli stesso, nella bestia che sarebbe stata immortalata nel dipinto.

La pellicola affronta la malattia mentale di Ligabue con la giusta sensibilità, mitigando gli aspetti più violenti e controversi legati alla sua personalità, senza, per questo, rinunciare ad un ritratto onesto e senza compromessi che tendano ad assecondare un pubblico desideroso di feticci romantici.

Nel Ligabue televisivo rimane quella disperata voglia di amare appassionatamente e fisicamente che fa di lui una persona straordinaria come noi, proprio perché la sua umanità lo avvicina ad ogni essere vivente dotato di un’anima sensibile e, come tale, assai fragile, capace di trovare sé stessa soltanto attraverso la pittura.

La sua vita è segnata da un’infanzia difficile: non conosce il padre e sua madre è emigrata in Svizzera. Viene adottato ma, essendo un sociopatico, è violento e maltratta la madre adottiva che finisce col denunciarlo. Toni entra ed esce da case di cura e manicomi fino al 1948: da qui la svolta fondamentale, infatti, il pittore Renato Mazzacurati mette gli occhi su alcuni dipinti del Toni e ne comprende la potenza stordente e dirompente. La critica e i galleristi cominciano ad interessarsi a lui e alle sue opere intense, coloratissime, espressionistiche. Ligabue diventa famoso; vince premi, vende quadri, trova amici che lo ospitano, si girano film e documentari su di lui, ma non riesce comunque a scrollarsi di dosso il suo enorme disagio, è, tuttavia, evidente che il suo istinto autodistruttivo si era assopito grazie alla luce derivata dalla pittura.

Colpito da paresi nel 1962, Ligabue continua comunque a dipingere fino alla sua morte avvenuta nel 1965, da appena 66 anni.


Shine di Scott Hicks

di Riccardo Bernini

Quando è uscito in sala, nel 1996, questo film presentava tutti quegli ingredienti necessari a diventare un successo da Oscar: la straordinaria interpretazione di Geoffrey Rush, che studia il personaggio fino a farne un calco perfetto, la musica classica che, diamine, funziona come non mai.

Della regia di Hicks ci si ricorderà appena, appena, tanto si resterà sedotti dal genio di David Helfgott. Si il film racconta il rapporto del protagonista con la società che lo circonda, rapporto mediato dal pianoforte, strumento che odia ed ama, tanto è spinto dal padre a compiere acrobazie monumentali: già da ragazzino è sottoposto a torture psicologiche da parte di un padre frustrato che, dal suo piccolo genio, pretende il concerto numero 3 di Rachmaninov, non capendo che, per comprendere la sua essenza, occorrerebbe quella vita, pericolosa ed emozionante, che il genitore gli nega, segregandolo in casa facendolo solo esibire come fosse un fenomeno da baraccone. Difficile non trovare un paragone con la vita del piccolo Mozart, vessato da un padre rigido ed egoista.

La libertà negata acuisce quella forma di autismo che, già affliggeva David da bambino ed il film ci fa capire che liberarsi diventa sempre più difficile ed anche quando, ormai ventenne, riesce a scappare, per andare a studiare musica al conservatorio, è così desideroso di accontentare il padre che si esibisce colla scuola in una memorabile interpretazione di Rachmaninov, da qui la crisi, una clinica psichiatrica, poi la rinascita e l’amore sincero di una donna.

Il film offre allora una speranza allo spettatore, senza dirgli, troppo chiaramente, che il modello del film è l’intramontabile Rainman: se sei handicappato, ma genio, allora, forse, te la cavi.

Il problema vero è che il disabile altro non è che un essere umano e, come tutti gli esseri umani, non è, quasi mai, toccato dal genio. Il film, se non altro, ha il merito di mostrare la strada, dolorosa, di David, anche se col romanticismo tipico degli anni d’oro di Hollywood. Ma non è forse l’Oscar un premio americano per americani?


Pollock di Ed Harris

di Riccardo Bernini

Ed Harris ha, sin da ragazzo, avuto sotto gli occhi l’arte di Jackson Pollock: il padre gli regalò una monografia dell’artista americano e, da allora, è iniziata una meditazione sull’opera di questo personaggio di rottura.

Il regalo paterno, sono parole dello stessi Harris, “era dovuto alla mia somiglianza con Pollock”, non pensava certo che il giovane figlio si sarebbe appassionato all’action painting. Entrato a far parte del jet set, parallelamente alla sua carriera, felice, di attore, cerca un regista disposto a realizzare un progetto sulla vita di Pollock. Sarà lui stesso a spiegare che, nonostante i suoi sforzi, dovrà dirigerlo personalmente.

Nel 2000, finalmente, esce il film: il pregio della pellicola è, in assoluto, l’accento sulla malattia mentale che affliggeva l’artista e sul ruolo risolutore della moglie che lo aiuta a trovare nell’arte una via d’uscita alle sue ossessioni attraverso lo sviluppo di una nuova tecnica pittorica. Il film è basato sulla visione di tantissimi documentari che mostrano Pollock in azione. La realizzazione è accuratissima e mostra un enorme rispetto per l’uomo e la sua dolora vicenda, compresa la difficoltà di arrivare a imporre il proprio lavoro.

Il soggetto è tratto dal volume Pollock: an American Saga (1989) di Steven Neifeh e Gregory White Smith. Ed Harris si affida alla solidità di una buona biografia invece di scrivere egli stesso un soggetto originale basato sulla sua ricerca personale. Resta però l’approccio tutto personale alla fragilità del genio suo malgrado che è anche vittima di uno spirito che non controlla, tempestandolo di immagini brutali e confuse come fosse un televisore rotto.

Pollock è, ormai assodato, uno dei vertici dell’Arte Contemporanea: il film mostra come il sistema dell’arte fosse riluttante al dripping, rappresentazione del nostro mondo schizofrenico. Un punto debole della pellicola è forse l’eccessivo volare che il film attribuisce al caso nell’elaborazione dei dipinti o anche una esagerata punta naif nell’approccio di Pollock ai suoi colleghi di pennello.

Il film inizia nel 1950, l'artista è intento a firmare autografi durante una personale che vede la partecipazione anche della celebre rivista LIFE; Pollock è orami famosissimo. Si tratta, però, soltanto di un attimo perché la trama del film si svolge nove anni prima quando l’artista era ancora uno sconosciuto alla ricerca del successo.

In questo periodo conosce Lee Krasner, una giovane artista con la quale dividerà uno spazio espositivo: in seguito diventerà sua moglie. Nel 1942 arriva, finalmente, una svolta fondamentale grazie a Peggy Guggenheim: la collezionista gli commissiona un grande quadro per arredare la sua casa, offre all'artista anche uno stipendio fisso e la possibilità di allestire la sua prima mostra personale. Nel 1943 l'artista, dopo una delle sue crisi, decide di trasferirsi a Long Island con sua moglie; proprio lì, nel 1947, Pollock arriva al dripping. Quando Lee vede questa opera prima esclama: "Ce l'hai fatta, Pollock! c'è un abisso con il passato!" Questo risulta un punto decisivo del film. Pollock trova il successo ma con esso anche la crisi, la fine del suo rapporto con la moglie e la prematura morte, in una parabola discendete molto umana, ed è proprio questa ricerca delle fragilità così umane a rendere il film uno dei più apprezzati tra tutti quelli che ripercorrono le vite degli artisti.


La Seconda Ombra di Silvano Agosti

di Riccardo Bernini

Il film è del 2000, comoletamente realizzato da Silvano Agosti e, nel caso di Silvano, la parola "comoletamente" gioca un ruolo fondamentale: il regista cura tutto, sino all'ultimo dettaglio e, ben inteso, vuole, ed ha, il massimo controllo su tutta l'operazione, a volte è il solo sulla scena con il cast di attori, come edde a dire una volta "io sono la troupe".

Perché è fondamentale questa premessa, bene, ci consente di avere una più chiara percezione del rapposto che Agosti ha col cinema: il fim è una creatura sua a tutto tondo e non nasce da alcun lavoro di gruppo. Anche il soggetto e la scenneggiatura del film sono il frutto di un progetto elaborato in completa solitudine, nel caso di questo film, scaturito dal suo incontro con Franco Basaglia in persona.

In effetti questo film ha tutte le caratteristiche dei lavori tardi di Agosti: è una visione scarna ed essenziale della famosa distruzione delle barriere tra il manicomio ed il mondo e prende spunto da qunto realmente avvenuto quando Basaglia lavorava    a Trieste: fece togliere le reti di contenzione che cincondavamo la cittadella del manicomio e, con l'aiuto di medici ed infermieri, cominciò a portare i malati all'esterno, mostrando loro la possibilità si una vita al di fuori di quelle mura.

Il film ha lo stile tipico di Agosti, a mezzo fra il reperto, la ricostruzione, l'inchiesta ed il dramma, non si preoccupa troppo dello spettatore, della sua reazione, inquanto autore, persegue la sua ricostruzione che fa sostanzialmente conto sull'interpretazione di Remo Girone: il regista vede nell’attore un secondo sé stesso, tratta la figura di Basaglia accostandovi quelle che possono essere, poi ineffetti sono, le sue convinzioni sulla malattia mentale. Tali idee prendono le mosse da un documentario collettivo, realizzato negli anni Sessanta, Matti da Slegare: la sua visione del malato corrisponde a quella di una vittima della tragedia sociale ove la medicina ufficiale tenta di vincere con la diagnosi – chiave di volta del mondo razionalizzato – ed il malato resiste, vittima di un equivoco che lo vuole inabile, incapace di gestirsi, non solo, ma anche pericoloso per se stesso e gli altri.

Basaglia si sottrae, finalmente, a questa cultura di tipo borghese – che emargina la differenza, o peggio, la classifica - , restituendo la giusta dignità all’essere umano, risarcendolo di una dimensione civile che le dinamiche dominanti gli avevano sottratto come a giustificare una smaccata inadeguatezza a comprendere un universo che non riesce, nonostante, appunto, classe dominante, a controllare.

 

 




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