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CINEFORUM MARZO 2015

cineforum-marzo-2015

Schede film

Le chiavi di casa di Gianni Amelio

di Riccardo Bernini

Le Chiavi di casa (2001) di Gianni Amelio affronta, direttamente, il problema, fin troppo velato, della relazione, quasi sempre negata, fra genitori e figli disabili. La negazione è la prima reazione che il film ci mostra: un padre che ha sempre ignorato il figlio si trova costretto a incontrarlo e non solo a conoscerlo ma anche a riconoscerlo come figlio. Paolo, questo il nome del ragazzo è, però, già grande ed il suo mondo interiore si sta costruendo senza aver mai tenuto conto che l’uomo che ha incontrato è suo padre. Dalla sua nascita, fino ai quindici anni, il momento del primo incontro col padre, Paolo non ha conosciuto i genitori biologici: la madre è morta di parto e, da allora, è stato allevato dagli zii che ha creduto essere i suoi genitori.

Arriva il momento in cui il padre biologico, Gianni, si sente abbastanza forte da incontrare questo figlio handicappato, che ha abbandonato, sconvolto dalla morte della compagna. Nella mente dell’uomo si agitano spaventosi spettri e paurose fragilità emotive, si aggiunga che non sa da che parte cominciare a fare il padre. Intanto, occorre ribadire che Paolo ha il suo mondo ed una serie di impegni che rappresentano il suo schema di vita, una serie di riti che gli consentano di attraversare la vita senza esserne trascinato, anche se il film evidenzia come sia impossibile, almeno al momento, una sua completa indipendenza psicofisica.

 Paolo però si dimostra, in molte situazioni, più strutturato del padre: il film riprende la struttura tipica del racconto iniziatico che si cementa attraverso un percorso di conoscenza della propria interiorità. Gianni accompagna il figlio a Berlino per via di controlli ed analisi cui il ragazzo si deve sottoporre periodicamente. Paolo vive nel qui ed ora di ogni situazione e, di conseguenza, per lui, tutto è superabile, l’unico ostacolo è una variazione allo schema mentale, così preciso, schema senza il quale non si può vivere. Di contro Gianni è frenato dalla responsabilità, dalla vita attiva e dalle conseguenze. E questo lo porta anche a fare l’errore paralizzante di percepire la diversità come una barriera rispetto alla normalità del resto del mondo.

Gianni tenta di applicare il suo modello di vita al figlio, sarà la madre di uno dei ricoverati a fargli capire che la chiave è l’accettazione della differenza e non la negazione. Non si può riparare ciò che non è guasto ma, semplicemente, ha parametri ancora da capire.Amelio ci ha, finalmente, mostrato uno schema completamente ribaltato ove è un figlio disabile a riempire l’incertezza di una vita complicata in cui in padre deve ancora scegliere da che parte stare: se Gianni lascia spazio ai sui spettri fatti di fragilità e paura, Paolo ha le chiavi di casa – non solo quelle degli zii – e sa dove  vuole andare anche se non conosce la giusta direzione.

Amelio imposta il film come fosse un cammino alla ricerca della chiave d’accesso – da qui il titolo del film – che strutturi e cementi un legame familiare negato. Non fa l’errore, semplicistico, di offrirci una soluzione finale, aspetta che siamo noi a trovare la direzione da prendere.


Amour di Michael Haneke

di Riccardo Bernini

Haneke, non vi sono dubbi, è uno dei registi viventi più rappresentativi del cinema d’oggi. Occorrerebbe, onde essere del tutto corretti, compiere un excursus completo della sua filmografia per capirne a pieno l’evoluzione. Cerchiamo di identificare, anche se può essere riduttivo, in una parola l’aspetto più significativo del suo cinema: concettualmente vicino ad una idea laica di timore, tremore di radice kierkegaardiana, il cinema di Haneke identifica la paura con qualcosa che fa da collante rispetto all’intera società. Quello che Jung chiamava inconscio collettivo si sussume, per il cineasta austriaco, con la paura della consunzione o della morte spirituale, che è, poi, peggio della morte fisica: Amour (2012) racconta una disabilità derivata dalla malattia di Alzheimer ma che non viene mai identificata: questa condizione paralizza una coppia di sposi in pensione, lei finisce, progressivamente, nel buio di una mente e di un corpo che non può più obbedirle, lui si prende cura di lei ma non sopporta di attraversare la porta verso lo spavento di una morte stigmatizzata dall’inconsapevolezza di uno spirito ormai spento. Haneke non prende posizione sulle decisioni ed i comportamenti dei protagonisti, com’è caratteristico della sua opera, decide di essere cronista di una situazione. Torna, in tutta la sua precisione, il riferimento alle tesi di Kierkegaard: Haneke toglie di mezzo l’obbedienza alla volontà di Dio lasciando campo libero alla volontà della natura riportando il dilemma di Abramo ad una dimensione di questione morale sul diritto, o meno, all’eutanasia.

            Il cineasta austriaco non è interessato alla dimensione politica del problema: il fatto che il marito decida di uccidere la moglie malata dopo averne visto la progressiva consunzione rappresenta più l’eutanasia di un amore abituato alla propria auto sufficienza piuttosto che qualcosa di legato ad una battaglia per la dignità della persona. Cosa significa “persona”, è la domanda che soggiace a tutto il film. Il regista decide di affrontare il problema immediatamente, anche, proprio, nel senso di eliminare ogni mediazione. La malattia degenerativa colpisce sin dalle prime scene e porta disordine in un ordine formale che travolge una vita costruita sull’abitudine e la ripetizione rassicurante di riti.

            Il film non si concentra unicamente sullo sconvolgimento della coppia ma ci mostra anche le reazioni di un microcosmo che ruota loro attorno: la famiglia in questo caso specifico è come un ramo inaridito che non sostiene ma cerca sostegno nell’immutabilità della forma rituale. I due anziani coniugi hanno, infatti, una figlia, ormai sposata, che si è abituata alla loro indipendenza, alla loro presenza-assenza. Anche se la donna vorrebbe reagire, aiutare i genitori, da un lato la fonte del suo amore filiale non è mai stata alimentata e dall’altro il padre è riluttante a condividere il dramma di una moglie che stenta, oramai, a riconoscere.

            Il finale vede la decisione del marito che risolve la sua paura, paralizzante, di solitudine col suicidio. Amour si può allora anche leggere come una storia di amore infinito che culmina in una morte felice in cui si ritroverebbe la pace, che derivava da quell’ordine, ormai perduto, a causa di un male intruso, oscuro – non è un caso che lui predisponga la scena e prepari un biglietto di addio prima di decidersi –. Se la libertà coincide col pensiero con che cosa coincide il progressivo smarrimento del proprio sé? Per questo, penso, il film inizia con le forze dell’ordine che irrompono nella casa dei due anziani, come a rompere, in modo definitivo quella fortezza che per i due aveva, sempre, rappresentato un rifugio rispetto ad un mondo loro estraneo e indecifrabile.


Il sogno della farfalla di Marco Bellocchio

di Riccardo Bernini

Non è cosa facile parlare di Marco Bellocchio e del suo cinema. Il compito è reso ancor più difficile quando alla sua forte personalità si aggiunge quella di uno psichiatra: Massimo Fagioli. Il regista emiliano, da sempre interessato ai labirinti della psiche labile, capisce – dopo Gli Occhi, La Bocca (1982) – che il mezzo cinematografico non basta a cristallizzare la sua idea sopra la malattia mentale. Bellocchio comprende di essere arrivato ad un vicolo cieco e di non avere più gli elementi sufficienti per proseguire, da solo, la sua indagine.

Diciamo, brevemente, che il cinematografo ha, quasi sempre, banalizzato la rappresentazione della psicanalisi e, se escludiamo Bergman, la psicanalisi al cinema è irrappresentabile. Consapevole di questo Marco Bellocchio inizia una collaborazione con Fagioli che li porterà a sviluppare tre progetti che non sono solo film ma, vere e proprie pietre miliari nella storia del cinema: Diavolo in corpo (1986), La Condanna (1991) ed Il Sogno della farfalla (1994). Al di là del giudizio personale sui film essi rappresentano un esempio unico e raro nel panorama della cinematografia nostrana. Prima di tutto occorre comprendere che essi sono realmente film psicanalitici, dal punto di vista tecnico si può tranquillamente affermare che sono opere rivoluzionarie che sfidano le leggi del racconto cinematografico.

In questa sede la nostra cura va all’ultimo capitolo di questa, ideale, trilogia: Il Sogno della farfalla rappresenta una provocazione, dichiarata, non solo allo spettatore medio ma anche al critico di mestiere. Come accadeva nei film precedenti, la sceneggiatura si concentra sulla fissazione patogena del disamore: l’impossibilità di essere amati è l’obiectum litis di questa prova di forza, il cui scopo è quello di abbandonare la ratio di una narrazione lineare. Il cervello del protagonista è, per così dire, volontariamente bloccato nella finzione teatrale: la vicenda, esilissima, vede una famiglia in crisi, sconvolta dalla decisione, apparentemente irrevocabile, da parte di Massimo, giovane attore teatrale, di rinunciare al linguaggio quotidiano per esprimersi solamente attraverso i classici della letteratura teatrale.I genitori di Massimo e le persone che gli sono intorno sono costretti a vivere entro il suo delirio per poter interagire con lui ed è affascinante vedere come Massimo si relazioni agli altri e porti avanti una vita quotidiana, senza mai rinunziare alla finzione teatrale derivata da un falso sé costruito a scopo di accusa nei confronti di una figura familiare incapace di amore o, anche, colpevole di troppo amore: il disagio psichico, teorizzato da Donald Winnicott, trova qui una perfetta cristallizzazione.

 Il film vede uno scontro inesorabile fra visioni del mondo e conflitti parentali, in questo sta la sua straordinarietà ed è anche il solo esempio di Falso Sé dichiarato, in altre parole quello di Bellocchio è il solo film che mostri un Falso Sé completamente esteriorizzato che non tenta di costruirsi un mondo ideale al fine di essere accettato dagli altri ma, al contrario sviluppi un universo affatto personale in cui devono, necessariamente entrare gli altri, sempre se intendono trovare la chiave di accesso.

 Il film ci indica che solo attraverso una vita amorosa, grazie all’aiuto di chi ci può comprendere – nel senso di accettare ciò che siamo e non ciò che rappresentiamo – possiamo uscire da un senso di inutilità soggettiva che ci porta a rappresentare la vita, piuttosto che viverla nella nostra condizione creaturale. Lo spiraglio verso una nuova vita sarà, per il protagonista, l’amore di una donna che, accettando la sua finzione arriva a mettere in crisi le sue certezze. Tuttavia la risposta resta confinata, come viene detto nel film, entro gli steccati di una contemplazione ideale: il silenzio resta un modo per mantenere intatta la propria immagine di onnipotenza rispetto alle ipocrisie che nasconde il quotidiano, fatto anche di paure paralizzanti. Il film si conclude facendoci intravedere la speranza di una vita normale per il protagonista che, grazie all’amore di una donna, finalmente diversa dalla madre, trova una identità che non piaccia solamente agli altri – che poi sono i genitori, da cui Massimo cerca spasmodicamente approvazione – ma, soprattutto a sé stesso.

Di seguito riporto la definizione di Falso Sé tratta da Wikipedia:

http://it.wikipedia.org/wiki/Donald_Winnicott

Winnicott indica, con questo termine, le situazioni nelle quali il paziente avverte un pesante senso di inutilità soggettiva, di non esistenza. Il Falso Sé deriverebbe da un rapporto primario madre-bambino insoddisfacente, quindi da una madre che non ha risposto in maniera soddisfacente ai bisogni del bambino. In questo caso non si parla tanto di bisogni fisiologici, quanto dei bisogni di crescita, di onnipotenza, di creazione e distruzione dell'oggetto. Inizialmente, infatti, è importante che il bambino sperimenti l'onnipotenza soggettiva, vivendo nell'illusione di essere lui (con i suoi desideri) a creare e distruggere la madre. Successivamente, grazie all'esperienza e all'oggetto transizionale, potrà muoversi verso un terreno di realtà condivisa, meno egocentrico. Per fare ciò ha bisogno di una madre sufficientemente buona che lo sottoponga a delle frustrazioni ottimali, che il piccolo possa recepire in maniera non traumatizzante. La madre non sufficientemente buona, invece, interrompe bruscamente l'onnipotenza soggettiva del bambino, tarpandone le ali e impedendo la crescita del vero sé: è in questo modo che si forma il falso Sé, un Sé privo di energia soggettiva, fatto di accondiscendenze, non creativo, senza spinta. Al contrario, il Vero Sé è quello nato dal normale superamento dell'onnipotenza soggettiva, la quale rimane come base del vero nucleo della personalità, la fonte di energia dalla quale si sviluppano gli aspetti periferici della personalità. Il Falso Sé viene quindi a configurarsi come una patologia legata ad un deficit presente nell'ambiente del bambino, ad una carenza nelle cure materne; si passa così da una teoria del conflitto, tipica della psicoanalisi freudiana, della psicologia dell'Io e delle concezioni kleiniane, a una teoria del deficit che presuppone l'assenza o la carenza di importanti elementi dello sviluppo.


Occhiopinocchio di Francesco Nuti

di Riccardo Bernini

Il film parte, come si può evincere dal titolo, dal romanzo di Collodi: ne prende in prestito lo spirito irriverente e formativo. La domanda che interessa il regista pratese ruota intorno all’età adulta di un ipotetico Pinocchio, costretto, dalla vita, alla responsabilità: cosa farebbe Pinocchio, una volta adulto, nel suo involucro di “bambino vero”?

Da queste, difficilissime, premesse parte l’operazione di Francesco Nuti. OcchioPinocchio (1994) è stato, per Francesco, il film più importante che abbia mai realizzato ed, insieme, anche il più sfortunato: Nuti era riuscito ad imporsi come attore e regista nella commedia e nel cabaret ed i suoi film e spettacoli godevano del favore del grande  pubblico. Si contendeva la palma di re della comicità toscana con Roberto Benigni, ovvio, Roberto aveva anche il favore della critica ed aveva lavorato con Jim Jarmush, era, insomma, già arrivato dove Francesco avrebbe anelato di arrivare.

 Una volta consolidato il suo successo artistico presso le masse che, almeno in Italia, arrivano a fermarlo per strada e amano i suoi film più dei grandi kolossal americani, Francesco è pronto per firmare un contratto con un produttore cinematografico che, da tempo, lo sta corteggiando, chiedendogli di entrare a far parte della sua squadra e questo, ovvio, attraverso offerte, molto generose, a livello contrattuale.

Francesco vuole dimostrare di non essere solo il “Cecco di Narnali” dei suoi film più amati, ma intende rivelare il suo lato più autoriale. Accetta di firmare con Cecchi Gori e comincia a fare le sue richieste: un film girato quasi interamente all’estero con un cast internazionale, effetti speciale e grandi strutture e scenografie imponenti. Da qui inizia il percorso, infausto, di questo, importantissimo film.

Tralasciamo, per il momento, la storia produttiva del film per concentrarci sui motivi che rendono questo film, sventurato, un esempio, unico, di commedia favolistica: Nuti rilegge il romanzo di Collodi in chiave, non soltanto moderna, ma atemporale, decidendo di collocare, in una contemporaneità capitalistica, una fiaba che parla del possesso come qualcosa che, allontanandosi da noi, ci deve liberare dal nostro, intimo egoismo. Il Pinocchio di Nuti non è più figlio di Geppetto ma è il frutto di una relazione tra un capitalista ed una cameriera: una volta nato Pinocchio viene rinchiuso, in segreto, dallo zio, in un istituto geriatrico e diventa l’angelo che si prende cura di tutti i vecchi che, negli anni, trovano ricovero nella struttura. Una volta scoperto che ha un figlio, il ricco banchiere Brando Della Valle, decide di prelevarlo e portarlo con sé: quello che era un solo un bambino è, ora, diventato un adulto che conosce soltanto quel microcosmo fatto di anziani che lo coccolano e di cui lui si occupa fino al trapasso e la sepoltura.

Il contatto con il mondo esterno crea un cortocircuito strano nella mente del protagonista: un universo fatto di apparenze e smodata ricchezza, dove il decoro è più importante dei sentimenti ed il legame parentale non è facile da indossare per qualcuno che è vissuto sempre nella malinconia della vecchiaia, in un luogo dove tutte le apparenze cadono e rimane solamente la fragilità di una vita che sta giungendo al termine.

Pinocchio decide di scappare, non può adattarsi ed il suo modo di agire è considerato tale da richiedere un ricovero psichiatrico, durante la fuga si innamora di una ricercata in fuga di nome Lucy Light, la maschera femminile di Lucignolo, che lo aiuterà a comprendere cosa significhi la vita reale, fatta anche di delusioni e tradimenti, cosa voglia dire essere feriti e umiliati. Tutto viene poi riletto in una chiave tragica, atipica rispetto ai film precedenti del cineasta toscano.

Lucy mostra a Pinocchio anche cosa implica l’amore fisico e come questo rapporto sessuale ci immetta, in quanto esseri sentimentali, nell’età adulta ove l’innocenza bambina è smarrita per sempre. Per un Pinocchio innamorato è, allora, inaccettabile che la polizia abbia ucciso la sua Lucy, sì perché Lucy muore e si spegne come fa la luce nel suo nome.

Film amarissimo dove l’amore che viene, subito, se ne va, strappato via da un padre biologico, alla ricerca del figlio che crede rapito e, così, toglie di mezzo l’unico vero amore che, un bambino, mai nato adulto, abbia mai conosciutoIl film fu, chiaramente, un clamoroso insuccesso di pubblico e critica segnando il ritorno di Nuti alla forma commedia-cabaret. Oltre a questo bisogna aggiungere che il prodotto che vediamo non è quello concepito dal regista ma è stato ridotto, per motivi di eccessiva lunghezza, dalla produzione.

OcchioPinocchio è il film che più ha tormentato Nuti, dove la maschera non voleva essere più marionetta, certo un film sul male di vivere, sull’essere rotti dentro.

 Dal 2006 Francesco Nuti è costretto su una sedia a rotelle ed è afasico ma questo non gli impedisce di scrivere, continuare a progettare. Certo, come fu nel 1994, si deve scontrare con un mondo che non vuole comprenderlo e pensa che nelle sue attuali condizioni non possa dirigere il film che sogna di realizzare.

A chi gli diceva che OcchioPinocchio era un film sbagliato lui rispondeva che “è uno smarrimento nel malincomico” là dove il capo comico sa di non potersi e non volersi più divertire.




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