Figli di un Dio Minore
di Riccardo Bernini
La pietra che tocca il piede mentre l’angelo cade dalle mani del Signore suo, distratto, fa rumore e,
allo stesso tempo, rompe qualcosa, chiude il canale dell’audio. Esistono tanti tipi di limite che
incatenano, costringendo ad una vita chiusa in una scatola: la sordità, altro non è che una scatola
che conserva ben plastificati, esternamente perfetti, forse, ma incapaci di capire il mondo degli
udenti, costringendo ad un eterno streaming muto in cui le labbra si muovono senza trasmettere
nulla, allora si devono muovere le mani che non si possono rilassare mai, che sono come una bocca
per parlare e che, per capirla, bisogna imparare una lingua straniera che come un koan, non risuona
facendo vibrare l’aria ma la fa muovere.
Questo è il mondo di Sarah, (Marleen Matleen) sorda dalla nascita che vive in un istituto per
non udenti come lei, questo luogo è una prestigiosa scuola che, tra l’altro, pretende di educare i
sordi al confronto con i normodotati, attraverso l’esercizio alla lettura delle labbra. Chiaramente
Sarah non vuole leggere le labbra ed imparare a parlare: non vuole entrare in contatto col mondo
degli udenti poiché è un universo devastato dalla prestazione e dall’età migliore. Sarah pensa di non
meritare nulla, di essere adatta a pulire i pavimenti, nonostante i suoi risultati come allieva della
scuola siano stati sorprendenti... ora “lava i pavimenti”, come dice il rettore “produce e, così, paga
le tasse”.
La regista Randa Haines costruisce un Takekurabe occidentale dove si confrontano altezze,
non solo di classe ma, anche, di condizione meramente fisica. La menomazione, la disabilità ci fa
voltare il capo e l’ossessione, normale, per il cattivo gusto trionfa.
ed allora al via giaculatorie di “ma come è possibile?” e “poveretta è un caso disperato”; persino
quell’illuminato del rettore è convinto che Sarah sia indomabile, che non possa essere educata: per
lei, certo educazione coincide con la violenza, il piegarsi a determinate regole le ricorda la
costrizione alla performance sadica con cui dimostrava le sue abilità a ragazzi in età puberale coi
recettori sessuali alle stelle. “Sarah è bella, Sarah non sta mai male e non può dire nulla e poi, se
potesse, direbbe che le piace”.
A differenza della Suzanne di Pialat (Ai Nostri Amori - Francia 1982), la nostra
protagonista non attende nulla e nessuno, è un io senza patria, che riflette rispecchiando tristezza. Il
destino la fa incontrare con James Leeds (William Hurt), nuovo insegnante, udente, chiamato in
quell’istituto per compiere l’impossibile: piegare i sordi all’accettazione del limite e, attraverso la
lettura delle labbra e l’uso della parola, prepararli alla vita di relazione con l’universo del giudizio
kantiano, che fa coincidere tale metro con l’esperienza. Ogni esperienza è allora, anche un giudizio
che presuppone un a priori d’esistenza. Il fatto che esisti ti pone sotto la lente del giudizio altrui.
Sarah vuole sfuggire questo giudizio restando una creatura senza amore: lo spirito che vuole
rinchiudersi nella coscienza della sua diversità e resta inerte come un fiore di susino, certo, delicato,
non immune alla sofferenza ma determinato a resistere.
Chiaro che James se ne innamora, perché Sarah è bella e Sarah sta sempre male, non accetta
di usare la parola e ha bisogno di qualcuno che la educhi e, nel senso etimologico di “condurre” la
protegga dal male, anche se è chiaro che è stata Sarah a scegliere James ed, in un certo senso lei ha,
di già, intrapreso la strada del cambiamento diventando martire (testimone) di una diversità che è
solo una mera questione linguistica che, per dirla à la Lacan: il messaggio dell’innamorato non
ritraduce dal rovescio fondo della sua mente l’innamorata.
L’Ottavo Giorno
di Riccardo Bernini
L’Ottavo Giorno è un film del 1996 diretto dal cineasta belga Jaco Van Dormael, qui al suo
secondo lungometraggio. Trovandoci di fronte ad un regista-autore sorge subito la difficoltà di
individuare un “genere” per questa pellicola. Diremo che il genere cinematografico e l’idea di
storia-trama sono stati superati in questo caso. Certo il film ha una trama: un uomo è così preso dal
suo lavoro che ha perso il contatto colla realtà, è separato dalla moglie e trascura le figlie, ancora
piccole. Ma la sua vita va avanti come fosse un automa e, quindi, il poveretto non riesce a scorgere
nulla. La sua vita è dedita al lavoro, più che altro per riempire un vuoto d’esistenza. Qualcosa
manca alla sua vita. Questa dimensione di “manque” lo sospinge e lo fa vivere dentro un mondo
cinto di regole, schemi che lui stesso si è imposto. Questa quotidianità è rotta dall’irruzione di
Georges: un ragazzo affetto dalla sindrome di down che vuole “tornare a casa”. Rinchiuso in un
istituto dalla famiglia, il giovane non conosce nulla del mondo esterno, ha una visione del reale
affatto metafisica attraverso cui procede per interpretare il mondo, in una parola rappresenterebbe
quello che Pascal ha chiamato ‘un artiste’.
Henri, questo il nome dell’uomo-automa (interpretato da Daniel Auteil), si scontra con
Georges (Pascal Duquenne) mentre vaga in auto sotto una pioggia costante. Georges è scappato
dall’istituto e vuole ritrovare casa sua, o meglio le sue radici; Henri, di contro, vuole solo riprendere
il lavoro che, con il suo flusso indistinto, lo protegge dalla vita.
I due protagonisti rivogliono indietro qualcosa: Henri è l’amore adulto che vive la crisi di un
io diviso dall’irruzione di troppa realtà sopra le sue velleità da famiglia borghese, sospinta da una
idea orientata in senso capitalistico; l’amore fanciullo finisce laddove interviene la concretezza di
un uomo qualunque, che è entrato a far parte di una società civile, la quale, pretende maturità,
apostrofandola come si fa con i camerieri. Henri è ‘cameriere a Gibilterra’ che, come un attore, ha
la faccia usata dal buon senso.
Georges, di contro, vive una grande libertà psicologica, non sa cosa sia uno spirito
geometrico e lascia vincere l’istinto sulla estrema ratio che dovrebbe disegnare i confini del reale.
Come tutte le opere di Van Dormael il film sconfina nel metafisico, e nel metaforico e, viene
detto, utilizzando il testo biblico, che Dio ha i suoi tempi, ed anche quando è distratto, non è
fallibile, poiché, anche la disabilità ha il ‘senso’ di: dare le direzioni alla società dei normali che han
fatto, di questa normalità, un baluardo ma il muro va infranto; ed il ‘cervello bloccato’ del fanciullo
Georges insegna ad Henri l’amore, che non è ancora adulto, ma vive nella speranza delle piccole
cose e procede dalla luce che esse emanano. L’amore ti prende e ti devasta tutto ma può anche far
nascere in te la spinta per ritrovare te stesso.
Il regista costruisce una grande metafora biblica che si rispecchia nell’adagio di Matteo
Apostolo del ‘perdersi o ritrovarsi’: Georges, il disabile perde se stesso ma ritrova le mani di un
aldilà dove il limite non esiste e tutto è smisurato. Henri ritrova se stesso e l’amore ma al prezzo di
perdere l’amico che lo ha condotto per mano.
Vincere o perdere non ha importanza, fondamentale è uscire dalla caverna per ritrovare una
dimensione dell’esserci.
Balla la mia canzone di Rolf De Herr
di Riccardo Bernini
Il regista Rolf De Herr è senza dubbio qualcuno che potremmo definire: un autore underground.
Ovvero, il suo cinema obbedisce agli stilemi, prototipici del mainstream, ma evade nella bellezza
del deforme. Il suo film più rappresentativo BAD BOY BUBBY (1993) affronta, con altra radice, il
problema della privazione sensoriale ed, insieme, l’inconveniente di essere nati. Tutto si muove
nell’ambito del contatto del soggetto con un reale che lo respinge.
Anche BALLA LA MIA CANZONE (1997) è il canto - o frammento - di un corpo negato,
raccontato in prima persona dalla scrittrice Heather Rose - che interpreta Julia e che è all’origine del
progetto, lo scrive ed, in parte, lo produce - , che presta tutto: corpo e anima a questo film, che
racconta la difficoltà di essere una donna-stanza.
Come già detto De Herr denuda il corpo fisico, questa scatola in cui ‘(r)esiste’ il soffio di
un’anima: Julia è un’anima. Il film mostra lo schiacciante scandalo di una vita quotidiana che
comincia con i bisogni fisiologici - qualcosa che normodotati e disabili devono, per forza
condividere -. Madelen, una ragazza aggressiva, che vuole mordere la vita, come per farle pagare
qualcosa, una colpa originaria? un destino di sofferenze e privazioni, decide di lavorare,
stipendiata, come assistente e badante di Julia: la donna, non solo è disabile ma, per poter
comunicare, deve utilizzare una tastiera che ritraduca nei suoni di una lingua il suo pensiero.
De Herr indaga, una volta ancora, il graffio dell’anima, l’impossibilità che gli umani
possano parlare la stessa lingua, risolvendo tutto in una grande metafora che vede al centro due
incarnazioni dell’esserci: Madelene, un corpo pronto alla prestazione - anche sessuale - che insegue,
ancora una volta gli splendori effimeri di una società profondamente superficiale e non risparmia
nemmeno la bassezza di imbrogliare per ottenere il suo, immeritato, posto di lavoro. Inizia una
guerra psicologica fra le due donne che vede Julia sconfitta dai limiti del suo corpo, immaturo, ma
vittoriosa nelle tessiture di una mente che non si può recintare. Julia vincerà anche la barriera della
carne che separa corpo da corpo, riuscendo ad incarnare ‘il femminile’.
‘il Femminile’ è il senso, la direzione profonda di quest’opera, un dramma neorealista che
non risparmia il disgusto che fa parte integrante del guardare, toccare, sentire un corpo diverso.
Ogni eterodotato è un atleta della differenza, qualcosa che ‘si mostra’, non allo scopo di
essere scandaloso ma che, inevitabilmente, muove allo scandalo: Julia è così bella ed intelligente
che lo splendore consumato di Madelen non può nulla, non arriva ad offuscarla.
BALLA LA MIA CANZONE è certo un film atipico nella filmografia del regista
australiano, non ha il suo, tipico, disordine creativo, forse a volte, didascalico: certo, questo, è da
imputare al lavoro di sceneggiatura della Rose, chiaro e distinto, proprio per una volontà, a volte,
volutamente descrittiva, caratteristica del film-messaggio - penso ad esempio a lavori come ANNA
DEI MIRACOLI (1962) - De Herr si è prestato a fare da megafono alla Rose con quella sua regia
cruda che non concede sconti, non ritocca l’immagine e il montaggio è la vita stessa - anche con
qualche tempo morto -
INCONTRI di Ben Lewin
di Riccardo Bernini
Essere una mente, priva di un corpo: questo il nucleo tematico di THE SESSIONS – Gli Incontri
(2012) di Ben Lewin. Il film narra gli ultimi anni di vita dello scrittore e giornalista Mark
O’Brian, un uomo costretto a vivere in un polmone d’acciaio… Mark ha avuto una educazione
religiosa ed è prigioniero di un’idea di Dio – padre giudicatore ‐ appresa andando a dottrina,
legata, probabilmente, alle sue origini irlandesi: la storia lo vede confessarsi ad un prete,
irlandese come lui, intorno al suo desiderio, mai realizzato, di amare, fisicamente una donna.
Mark pensa che questo desiderio – tutta l’impresa – abbia qualcosa di diabolico, di dannato. Il
nostro protagonista desidera e concepisce, intellettualmente, l’amore ma sa d’essere un corpo
che desidera senza fine poiché tutti desideriamo e questo desiderio ci rende uguali, cancella
ogni differenza. Ecco la seconda parte del film: Mark decide di intraprendere una ricerca sulla
sessualità nel mondo dei disabili per poi decidere di fare lui stesso da soggetto per il suo
articolo.
L’impero della mente concepisce un desiderio sconfinato ed il corpo non è mai sganciato dalle
vibrazioni che concupisce uno spirito e, certamente, in questo caso, l’handicap non c’entra, gli
amorosi sensi che un corpo vuole non si legano a qualcosa di fisico, riguardano l’intelletto
umano i cui istinti continuano a svilupparsi nonostante tutto.
Amare significa anche cercare un contatto fisico dove la comunicazione prescinde dalla
elaborazione verbale. Il film di Lewin ci mostra come l’amore e l’innamorarsi siano due cose
diverse, l’istinto crea una dipendenza fisica, una dipendenza sensuale, l’innamoramento è un
rispecchiamento nell’altro.
Interessante notare che l’innamorarsi abbatte ogni barriera culturale o limite fisico, al
contrario la ratio, la logica delle convenzioni sociali, frena tutto nel nome di una ‘sacra’
differenza: la terapista sessuale (Cheryl) si innamora perdutamente dello scrittore, uomo‐
mente ma poi ritrova la differenza del suo essere una donna normale, una professionista per
cui il sesso è una seduta di psicologia. Il ruolo di surrogata sessuale non cambia il fatto che
Cheryl sia moglie e madre in una famiglia di tradizione ebraica.
Alla fine il discorso rimane legato ai limiti di un mondo dominato dall’idea che si possa parlare
di normale e diverso con le prime parole che vengono alle labbra. Ma parlarne e viverlo sono
due cose ben diverse e, del diverso, ci si potrebbe anche innamorare, resta da sapere come
affrontare questo amore giorno dopo giorno.