A Werewolf Boy (in coreano Neukdae Sonyeon ) 2012 diretto da Jo Sung-hee .
È un fantasy con venature di melodramma e romanticismo che ha conquistato il pubblico, diventando uno dei film romantici coreani di maggior successo. Il problema vero si sposta realmente dentro la natura umana. Di che cosa è fatto l'uomo? Qual è la sua natura, quali sono le sue inclinazioni? In che cosa consiste l'anima? E l'anima è qualcosa che la condizione di disabilità può cambiare, scalfire, determinare? Oppure la condizione di diversità può avere a che fare con l'anima, entrare nel suo gioco, insinuarsi nelle sue spire? Può riguardare il discorso, nel senso di indagarlo, riosservarlo, commentarlo da questa prospettiva? Ecco che in quest'opera il discorso si fa serio, importante, denso, perché si parla proprio della differenza che connatura l'essere vivente, che si trova sotto la pelle del vivente, sotto la pelle dell'essere senziente. Non necessariamente umano, ma dotato di una natura umana, nel senso di una capacità di comprensione, di compassione, di intuizione del sentimento che muove le nostre azioni, così come quelle degli altri verso di noi, o, nel caso specifico, del nostro protagonista. Quando il cinema è importante o vuole necessariamente occuparsi di temi sensibili, può anche raccontarli o esporli attraverso l’uso del fantastico, un genere eminentemente letterario. Tuttavia, nel farlo, tiene conto di una realtà che esiste e permea il tessuto intimo delle cose e dei fatti. Nel caso di questo film, c’è una forte componente fantasy nell’ipotesi del cosiddetto ragazzo lupo, del cosiddetto ragazzo selvaggio allevato dai lupi, che possiede una natura lupesca, sostanzialmente selvaggia e primitiva. Ma questa idea del selvaggio, del primitivo, dell’incalcolabile, del non addomesticato, del socialmente inaccettabile dal punto di vista del comportamento e dell’azione, non altera in realtà la capacità del protagonista di comprendere ciò che lo circonda, di sentirlo col corpo o, per usare un’immagine efficace mutuata dalla cultura estremo-orientale, con il cuore-mente. Ecco, è un film che attiene profondamente al cuore-mente e ai rapporti interpersonali, alla relazione che è alla base della cura di una persona socialmente percepita come diversa, come un peso per la società. O comunque come qualcuno con—per usare una semplificazione brutale e violenta—"bisogni speciali", traducendo direttamente un anglicismo di chi vuole ripulirsi la coscienza attraverso un linguaggio politicamente corretto. Un politicamente corretto che, in realtà, è violento e annienta un’identità reale, la quale dovrebbe invece trovare nella differenza, nell’etero-abilità, la vera forza propulsiva che muove il mondo. Perché il mondo è mosso dalla differenza. E soprattutto il mondo interiore è mosso dalla differenza, non da un’idea di parificazione e livellazione del reale, ma dalla sua molteplicità, dal suo essere sfaccettato, dal suo essere un diamante che ha mille facce e mille modi di proiettare la sua luce.
Diario di una Schizofrenica di Nelo Risi 1968
di Riccardo Bernini
La psichiatria è una tecnica terapeutica che ha a che fare con il controllo e che, soprattutto, cerca di eliminare lo strato di superstizione che ha da sempre connotato l'approccio alla malattia mentale. Anzi, in alcuni casi, la malattia mentale era considerata una sorta di illuminazione. In un certo senso, ciò che oggi viene definito malato mentale era, al contrario, visto come qualcuno capace di liberarsi permanentemente dai legacci, diciamo così, quasi terreni, che costringevano la sua capacità percettiva dentro uno schema preciso, dentro un determinismo. Successivamente, la nascita di una borghesia industriale e la conseguente rivoluzione — anzi, direi quasi per effetto di questa rivoluzione — hanno portato alla nascita di quella scienza inesatta che possiamo definire psichiatria, poi perfezionata nella psicoanalisi. Quest’ultima ha cercato di leggere la mente umana in modo meno organicistico, non più soltanto come un organo separato, ma come un insieme di suggestioni derivanti anche da cultura, tradizione ed emozione, certamente legate a un modo di essere, di sentire e di percepire la realtà. Questo è fondamentale. La psichiatria, nel suo approccio classico, è estremamente funzionalista e quindi nega la partecipazione dell'uomo al quadro. La terapia, pertanto, era concepita come un intervento che, anche in modo violento, doveva inserirsi fisicamente all'interno della complessità di un individuo, ridotto a puro oggetto d'analisi e la cui umanità veniva sostanzialmente ignorata. Nei suoi primordi, la disciplina psichiatrica ha negato all'uomo uno statuto d'esistenza; anzi, direi quasi che, fino alla sua riforma (almeno in Italia), si è sempre manifestata in modo autoritario e, in alcuni casi, continua a farlo. L'approccio psichiatrico prevede spesso un trattamento farmacologico che esclude quasi sempre, o prevede solo in minima parte, il dialogo con il paziente. Il paziente è sempre escluso dal quadro: è qualcuno obbligato al farmaco, alla terapia, alla cura. Nel caso specifico del nostro film, addirittura, viene sottoposto all'elettroshock, mostrando una psichiatria pre-basagliana, un modello autoritario che si impone sul paziente, trattandolo come un individuo incapace di reagire e di partecipare alla vita sociale. "Diario di una schizofrenica" è un film del 1968 diretto da Nelo Risi, ispirato all'omonimo libro della psicoanalista svizzera Marguerite Sechehaye. Non ci viene detto molto sull'origine della schizofrenia della protagonista. Il regista Nelo Risi entra subito nel cuore del problema, adottando il punto di vista della protagonista senza soffermarsi troppo sulle cause che hanno condotto alla sua condizione, intesa come una particolare interpretazione del mondo. È come se fosse guidata da un sentimento profondamente poetico, scaturito proprio dal "dono" dello schizo, ovvero da questa mente divisa che lotta per esistere, per emergere. Quando non viene sorvegliata, è capace di esprimere una straordinaria intensità poetica e una densità emotiva che si colloca in un altrove, al di là e al di qua della ragione, senza trovare o necessitare spiegazioni all'interno della realtà così come viene codificata dagli individui che la circondano. È fondamentale rilevare che il film, così come il testo da cui è tratto, mostra esattamente come, a un certo punto, l'intervento di una psichiatra illuminata diventi cruciale. Questa psichiatra desidera entrare nel mondo della protagonista, non per renderla un individuo allineato alle convenzioni sociali, ma per aiutarla a superare il suo impasse comunicativo, consentendole di vivere nella società senza rinunciare alle sue peculiari sensibilità. In questo senso, il film ci conduce verso una trasformazione della protagonista, che non rinnega le caratteristiche che la condizione schizofrenica le ha donato. In effetti, si può dire che per la schizofrenia non esiste una vera e propria cura, e di conseguenza la protagonista continua a vibrare su un doppio binario, con la costante consapevolezza di aver vissuto in una condizione alienante e trasformatrice, ma anche, in un certo senso, luminosa. La coprotagonista, la psichiatra, entra nel mondo di Anna – così si chiama la protagonista – per aiutarla a costruire una vita di relazione al di là del labirinto schizofrenico. Le offre un filo di Arianna affinché possa emanciparsi da un universo caratterizzato da un linguaggio privato, espresso attraverso un comportamento ed un linguaggio infantili, o da un universo muto, in cui il linguaggio non si manifestava se non attraverso gesti e azioni corporee, senza alcuna codificazione verbale. Anna – il cui nome, non a caso, è un palindromo, leggibile in entrambi i sensi – riesce così a entrare nel mondo secondo le sue capacità, guidata dalla voce interiore della psichiatra o psicoterapeuta, che la aiuta a interfacciarsi con la realtà. Tuttavia, questa trasformazione non cancella il suo sguardo poetico sul mondo: Anna rimane una persona che ha sperimentato il limite e, proprio attraverso di esso, accede allo smisurato.