Zoran il mio Nipote Scemo di Matteo Oleotto
di Riccardo Bernini
Il film è molto interessante perché mescola i toni della commedia con un registro delicato che agevola il racconto: rappresenta l'opera prima del regista che ha impiegato diversi anni per la sua realizzazione, intendendo con questo, soprattutto, la fase di scrittura.
L'aspetto più importante di questo lavoro risiede nel concetto base che non si può parlare in modo assolutamente chiaro di chi sia il disabile. Sembra, quasi, si voglia raccontare una vicenda in cui la disabilità è un graffio dell'anima, questo ha più a che fare con un atteggiamento verso la vita di chi è stato deluso e soffre rinchiuso nel cinismo.
In effetti il vero protagonista di questo film non è il ragazzo del titolo, bensì Paolo Bressan, interpretato da Giuseppe Battiston: si tratta di un uomo prigioniero della sua tristezza, che vive nel passato, nel rimpianto. La sua vita, però, cambia quando incontra Zoran, un ragazzo sloveno che sempre vissuto con la zia, una lontana parente del Bressan: alla sua morte la donna che ha messo Zoran in una casa-famiglia e decide di lasciare il giovane in eredità al nipote. Questo, indubbiamente, cambierà la sua vita in maniera radicale. Paolo, che è abituato ad ottenere quello che vuole, deve imparare a mediare, a gestire la sua rabbia È un individuo incline a ragionare con le mani e sembra usare il cervello soltanto quando è sicuro di ottenere un tornaconto personale.
L'interesse della pellicola risiede proprio in questo cambio di registro, nel fatto che ci accorgiamo di uno stravolgimento anche rispetto ad i canoni di un classico film sulla disabilità, per una volta non è il normodotato - o meglio quello che si considera tale - a sostenere ed aiutare colui che ha etichettato come diversamente abile: in questo, eccezionalmente, le regole cambiano radicalmente mutando il senso stesso della storia.
Stavolta non ci viene detto che occorre cambiare il nostro punto di vista ma, piuttosto, ci viene mostrato, proprio quello che il cinema dovrebbe sempre fare quando affronta la cosiddetta diversità che, è tale, proprio perché siamo noi a farla esistere, si tratta, in effetti, dal nostro sguardo sulle cose del mondo: è come se il regista ci volesse accompagnare, per mano, in questa scoperta e lo fa puntando sulla estrema semplicità d'animo di Zoran che, non conoscendo le cose del mondo, si è formato una granitica idea del bene e del buono che ha una forza tale da travolgere tutti coloro che lo conoscono.
Quindi il film è certamente una storia di riscatto ma sarà Paolo ad imparare una importante lezione attraverso il tempo trascorso con Zoran. In definitiva non saprei dire se il film racconta, convenzionalmente, una disabilità, però, dimostra come il nostro atteggiamento rispetto alla vita di relazione ci possa richiudere in una gabbia che è più limitante di un handicap il quale, certamente, è visibile ma non ha lasciato alcuna traccia nell'anima.
Misure Straordinarie di Tom Vaughan
di Riccardo Bernini
Il film parte delineando la figura di John Crowley (interpretato da Brendan Fraser) un uomo che ha davanti a sé una promettente carriera, tuttavia, le sue prospettive cambiano, radicalmente, nel momento in cui, ai suoi due figli, viene diagnosticata una malattia assai rara e, per di più, incurabile: il morbo di Pompe, rara malattia genetica che provoca distrofia muscolare.
Nella misura in cui – ed il film lo mostra molto realisticamente – i genitori non si arrendono mai, questi decide di lottare, anche sostenuto dalla moglie Aileen. Dopo una serie di ricerche riescono a scovare il dottor Robert Stonehill (interpretato da Harrison Ford), un ricercatore ben poco ortodosso che, certo non gode della stima e del sostegno dei colleghi; tanto è vero che non riesce a trovare finanziamenti e sostegno per la sua ricerca, che tenta di rallentare la malattia anche se non può rappresentare una cura definitiva. John investe molto del suo danaro, anche rischiando il lastrico, allo scopo di avviare un'azienda bio-tecnologica finalizzata allo sviluppo di una cura per la sindrome di Pompe. Risulta abbastanza evidente che si ritroveranno a scontrarsi con l’ottusità del mondo farmaceutico e del sistema sanitario.
Come ha notato il citrico Giancarlo Zappoli il film richiama molto un’opera precedente – quasi scomparsa anche dai palinsesti televisivi: L’Olio di Lorenzo del 1992, purtuttavia i film sono molto diversi anche se condividono il ritratto di genitori battaglieri. Detto questo il film che interessa queste righe è indebolito da un impianto eccessivamente para-televisivo che ha più le caratteristiche di un episodio pilota da serie TV, piuttosto che la tensione drammatica di un film. L’opera si inscrive nella lunga lista dei film che vogliono sensibilizzare lo spettatore normodotato con la giusta dose di lacrime e buoni sentimenti, tutto molto nello stile del sogno americano, che si infrange ma poi ritorna. Ovvio che l’opera, se pure, tratta da una storia vera, si prende certune libertà, anche legate ad esigenze di carattere cinematografico e drammaturgico. Nella realtà i figli di Crowley avevano, rispettivamente, 15 mesi e 7 giorni quando venne loro diagnosticata la malattia e 5 e 4 anni quando ebbe inizio il trattamento farmacologico. Qui hanno 9 e 7 anni anche allo scopo di poter sviluppare un qualche sviluppo psicologico dei personaggi che permetta agli spettatori di capire come questi convivano con la propria disabilità, in questo senso il fatto di spostare l’età si è dimostrato efficace, altrimenti la vicenda avrebbe dovuto concentrarsi sulla coppia di genitori, tuttavia il film non era interessato al dramma borghese de “il disabile in famiglia”, quanto piuttosto, sposta l’asse della questione sul piano del “con”, ben inteso che resta ferma la necessità di avere molti mezzi, soprattutto economici, al fine di poter sperare in un successo, soprattutto quando la maggioranza della comunità ti è contro. Ciò detto, Harrison Ford risulta convincente nella parte del medico, anzi, si è molto preparato anche a livello terminologico, per essere il più credibile possibile.
Rosso come il Cielo di Cristiano Bortone
di Riccardo Bernini
Questo film ha Il grande pregio di essere insignificante, dal punto di vista della messa in scena, non particolarmente innovativa ma, di contro, rappresenta una delicatissima e sensibilissima denuncia rispetto a quelli che sono gli istituti differenziali, rispetto a quello che il dramma di un cieco, non nato, poiché il protagonista di questo film perde la vista seguito ad un incidente di caccia e quindi sperimenta, anche se da giovanissimo, il dramma di diventare, irreversibilmente, disabile e questa impossibilità di tornare indietro muta radicalmente anche la sua percezione della realtà poiché il ‘diventare cieco’ - e questo è il centro del film - significa sperimentare una nuova dimensione della del reale, anzi, doverlo riprogettare: questo progetto è il fondamento del film, che è anche un atto d'accusa, lo ripeto, a quello che era (diamo negli anni Settanta) e, spesso, è ancora, il trattamento dell'handicap relegato alla ‘diversità’, ad una etichetta “differenza”, esattamente all’opposto di un'idea di lotta contro il naturale corso degli eventi: il nostro protagonista decide di emanciparsi da questa condizione attraverso l'arte, la sapienza, attraverso la conoscenza, non solo di sé, ma anche del suono nella realtà che lo circonda e questa conoscenza dei suoni della natura e della realtà circostanti lo aiuteranno a sviluppare una sensibilità, che poi, culminerà nel mestiere che deciderà di intraprendere: il progettista del suono nel cinema, un aspetto molto importante per il regista, poiché il cinema diventa fonte di salvezza per qualcuno che, altrimenti, avrebbe legato finito i suoi giorni giorni come un caso fra i tanti, esattamente quello che avviene comunemente quando il genitore si arrende e di conseguenza anche il disabile si rassegna rispetto alla sua condizione ritenendosi incapace di uscire dalla sua condizione fatale. La storia (realmente accaduta) di questo film contraddice la Fatalità in cui il destino vorrebbe condizionato il soggetto vivente, anzi, questi lotta per se stesso, lotta per trovare una sua identificazione, per trovare un suo posto nel mondo: attraverso il suono nel cinema crea un contesto altro in cui vive la realtà, esattamente come afferma Truffaut, “più vero del reale c'è solo cinema”, più reale della realtà c'è soltanto l'immagine; è l'immagine sonora che accompagna una visività, persa per sempre, e, si conseguenza, questo “fuori per sempre” dell'immagine diventa un contenitore emotivo, un vero motivo attraverso cui il protagonista si esprime ed esprime il suo modo portandosi dietro il suo marchio di sensibilità. Quindi, in questo senso, un film la cui messa in scena è in second’ordine rispetto, però, ad una potenza decisiva dal punto di vista di quello che è il portato segnico, l’impatto anche morale, nel senso più vero del termine, nella connotazione di un film che rappresenta una lezione importantissima per chi lo guarda, per chi lo osserva, per chi ne sia coinvolto.
Io Sono Mateusz di Maciej Pieprzyca
di Riccardo Bernini
Nonostante il film abbia ricevuto molti consensi a mio giudizio risulta una operazione meno riuscita rispetto ad altri esempi del genere: la vicenda si ispira ad una storia realmente accaduta. La vicenda racconta – tra l’altro – anche della creazione un nuovo linguaggio che consenta al protagonista di comunicare con gli altri poiché tutti, a parte i familiari, sono convinti che il ragazzino non comprenda nulla di ciò che gli accade intorno e sia, sostanzialmente, inerte, una sorta di granchio un po’ anche idiota che vive del solo contatto fisico, sentimentale, nel senso di ‘sentire le cose per istinto’, come un animale, finché il protagonista non prende consapevolezza di sé e del proprio mondo; in questo atto di consapevolezza perché sta tutta la tristezza del film che, almeno nelle premesse, è molto convincente, mi è piaciuto, mi ha colpito la ricostruzione della vicenda reale e di quanto il personaggio ha vissuto e sofferto rispetto alla sua condizione, qualcosa che un cinema che intenda sensibilizzare all'handicap non deve mai dimenticare, anzi, è un aspetto fondamentale e caratterizzante: non dimenticare mai che ci si concentra sul personaggio, oppure sui genitori, ma, in questo caso, il protagonista, una volta che comprende i suoi limiti e gli strumenti per comunicare, decide scientemente di ritirarsi dal mondo per vivere in una struttura ‘protetta’ egli stesso decide, quindi, di rinunciare a lottare inserito in un contesto normodotato preferendo vivere in un contesto, tale che, manifesti la tua disabilità come una bandiera in questo senso Io sono il Mateusz del titolo vuole affermare: “io sono bandiera, Io sono vessillo di ciò che vado vivendo sulla mia pelle” e quindi la potenza del messaggio risulta mitigata dalla scelta del protagonista, anche se, è una decisione che può essere comprensibile ad un pubblico normodotato che non lo vive ma, piuttosto, lo subisce passivamente attraverso schermo del cinema, per me, che sono disabile, questa situazione risulta un po' paradossale in quanto non si può essere testimone unico, sostanzialmente una monade chiusa rispetto al mondo, dato che il mondo, con la sua comunicazione con il suo rumore ci sovrasta, ecco, Mateusz non vuole che la sua anima sia graffiata dall’irruenza di un’indelicata insensibilità del mondo normale, di quel mondo normale che, lui, definisce “normale” nel momento stesso in cui lui preferisce sentirsi abnorme, troppo ingombrante per un mondo normodotato. Questo ho percepito, rispetto al film, mi ha fatto storcere il naso e, per tale motivo, ho apprezzato di meno l’operazione che, nelle premesse è ottima, anche considerando la produzione ed il budget che ne fanno un esempio di cinema indipendente nel senso vero: al di fuori di qualsiasi industria cinematografica e di qualsiasi major, è un film che è unico nel suo genere, anche per come utilizza il mezzo cinema, per come lo esprime, per come lo appalesa e per come mostra la realtà senza alcun tipo di filtro romanzato perché, in realtà, c'erano delle scappatoie anche rispetto alle scelte fatte dal regista, c'erano, deviando da quello che era il percorso tracciato dal vero protagonista della vicenda, facendo svoltare la storia verso un finale di riscatto mentre questo c'è ma è solo personale: se arrivi da solo alla consapevolezza che esistono dei limiti, che esiste la possibilità di comunicarlo ma, piuttosto che rappresentare una bandiera, un megafono per il mondo hai introiettato questi limiti contro te stesso e coloro che, come te, senti abnormi, allora questo sarà il tuo grande limite.