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CINEFORUM NOVEMBRE 2017

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Schede film


Prima la musica e poi le parole di Fulvio Wetzl

di Riccardo Bernini

Il nucleo del film non è narrativo, ma filosofico: la questione del linguaggio e del suo rapporto con il mondo. Il padre, imponendo al figlio un codice privato di parole sostituite arbitrariamente, compie un atto di colonizzazione radicale: sottrae al bambino l’accesso alla lingua comune, lo priva della possibilità di abitare il mondo condiviso. Il risultato è un handicap indotto, non naturale: il figlio “sa” cosa vuole dire, ma non può comunicarlo a nessuno, perché il suo vocabolario non coincide con quello di nessun altro parlante.

La violenza di questo gesto è duplice. È una violenza linguistica, perché isola il bambino dal consesso umano; ed è una violenza esistenziale, perché lega la vita del figlio a quella del padre, unico depositario del codice. Quando l’uomo muore d’infarto, il bambino non può chiedere soccorso: non possiede le parole per farlo. L’egoismo paterno, chiuso nel proprio esperimento, genera così una solitudine assoluta, lasciando il figlio vivo ma senza mondo. A questa clausura si aggiunge un dettaglio ancora più simbolico: il padre non gli consente di leggere alcun libro, ma soltanto di sfogliare volumi di pantoni, tavole di colori senza narrazione né parola, riducendo l’esperienza del testo a puro codice visivo.

Contro questo isolamento si staglia la musica. Se le parole possono essere manipolate e rese indecidibili, il suono non lo è: posso cambiare i nomi delle note, ma non la vibrazione che colpisce l’orecchio. La musica resta linguaggio irriducibile, esperienza immediata, universale, che non può essere riscritta dall’arbitrio di un singolo. È attraverso la musica che Giovanni, il bambino, trova una via di accesso sentimentale al mondo: un linguaggio che non colonizza ma apre, che non chiude ma unisce.

Eppure il film non si arresta a questa visione cupa: conserva un’idea positivistica, la possibilità di una speranza. Questa speranza si incarna nella figura dell’educatrice, che tenta e in parte riesce a trovare la chiave d’accesso al mondo di Giovanni. Se la musica rappresenta il fulcro sentimentale, l’educatrice diventa il tramite tra l’universo privato del bambino e il linguaggio condiviso, riaprendo lo spazio di una comunicazione che non è più abuso ma dialogo. C’è una luce, uno spiraglio: il linguaggio, sottratto all’egoismo paterno, può tornare ad essere strumento di incontro e di comunità.

Il titolo del film è allora una dichiarazione critica: prima la musica e poi le parole. Prima il residuo autentico, incontrollabile, che permette ancora comunicazione ed emozione; poi le parole, che possono anche diventare gabbia, strumento di dominio, codice privato che tradisce la vita.


I Rec U di Federico Sfascia

di Riccardo Bernini

I Rec U di Federico Sfascia porta la disabilità sul terreno dello sguardo. Neve, il protagonista, non vede i volti delle donne: il reale gli appare sfocato, imprendibile, come negato nello spazio. La sua condizione non è clinicamente definita, ma richiama da vicino la prosopagnosia, la cosiddetta cecità facciale, in cui il volto, pur percepito, non viene riconosciuto. Non si tratta di un difetto della vista, bensì di un cortocircuito neurologico che rende impossibile la funzione primaria del volto: garantire identità, presenza, relazione.

Nel film questa impossibilità diventa evento cosmologico: lo sguardo che spuoca è lo sguardo che nega, che non riconosce, che sottrae. La realtà, in sé incontenibile, non può essere affrontata nella sua pienezza, e allora viene registrata. La videocamera diventa la vera protesi visiva di Neve, lo strumento che gli permette di ricostruire altrove ciò che a occhio nudo resta inaccessibile. Non è un gesto tecnico, ma ontologico: la realtà è vivibile solo per procura, attraversata in un oltre di senso.

Eppure una donna, Penelope, sfugge a questa legge: Neve la vede chiaramente, senza filtri. Ma proprio per questo l’amore si rivela impossibile, immaginato, allucinato, inseguito come un mito. Penelope è la Euridice che Neve non riesce a trattenere: la sua presenza nitida è già promessa di perdita, l’oggetto che, come per Orfeo, si dissolve nel momento stesso in cui si tenta di salvarlo. L’amore diventa allora il volto estremo del reale: chiaro, ma inattingibile.

Il regista scioglie l’enigma nel finale, riportando il protagonista a una visione “chiara” del mondo, a una mente che sembra liberata dall’impasse. Ma per la rassegna, il nucleo del film non è la soluzione, bensì la condizione stessa: l’impossibilità di riconoscere il volto come atto fondante dell’interpretazione del reale. Lo sguardo che spuoca è lo sguardo che segna il confine dell’universo: il volto non appare, e senza volto la realtà stessa resta negata.

In questo senso, I Rec U si inscrive a pieno titolo nella riflessione sulla disabilità come differenza. Non come mancanza, ma come modalità singolare di attraversare il reale, di sopravvivere all’impossibilità del volto. Neve non abita la nitidezza, ma l’oltre; non vede la presenza, ma la sua assenza. È qui, in questo spazio sfocato, che prende forma la sua unicità fragile, irripetibile, e con essa la sua verità.


Tom & Viv di Brian Gilbert, 1994

di Riccardo Bernini

Il film Tom & Viv (Brian Gilbert, 1994) è un'opera ingannevole: racconta il dramma biografico del poeta T. S. Eliot e della sua giovane moglie Vivienne Haigh-Wood, mostrando un matrimonio devastato dalla malattia. Ma a ben vedere, non è la malattia a divorare la coppia: è la società. È il codice inglese del pudore, della reputazione, della mascolinità accettabile. Eliot, nel film, appare come un uomo timido, impacciato, ma in realtà compie un atto terribile: sacrifica la donna che lo ha creato, poeticamente, sull’altare della rispettabilità.

Vivienne è la sacerdotessa della modernità. È lei a portare Eliot al contatto con l’eccesso, con il desiderio, con l’abisso. È lei — col suo corpo lunare, col suo linguaggio spezzato — a fargli da oracolo. Ma quando Eliot comprende che per diventare Poet Laureate deve diventare anche Gentleman, allora spezza il patto. Non protegge Vivienne. Non la custodisce. La consegna alla medicina, alla famiglia, alla disciplina. E non tornerà mai più a visitarla.

Vivienne non era pazza.
Era libera. E la libertà, in certe epoche, è un disturbo mentale diagnosticabile.

Alda Merini lo sapeva.
Lo aveva vissuto sulla propria pelle. Aveva “scopato” troppo, pensato troppo, amato troppo. Aveva osato raccontarlo in versi, in lettere, in urla. Era stata poetessa del corpo e del desiderio, della maternità e dell’erotismo, della follia e della grazia. Ma soprattutto era stata
 donna viva in un’epoca di uomini morti. E per questo la dichiararono pazza.

Vivienne e Alda sono le due facce di uno stesso patto spezzato: la donna che genera poesia viene espulsa dal canone poetico. Quando la poesia scaturisce da un uomo, essa viene celebrata come genio. Quando esplode da una donna, viene contenuta come delirio.

E allora la follia, la disabilità, il disagio mentale non sono sempre malattie.
Sono spesso
 categorie sociali applicate al dissenso, alla differenza, alla non-addomesticabilità.
Vivienne viene rinchiusa non perché malata, ma perché ingestibile.
Alda viene internata non perché pericolosa, ma perché troppo vera.

Questo è il nodo che Tom & Viv non esplicita, ma insinua.
La vera tragedia non è l’amore che si consuma, ma
 la luce che viene rifiutata.
Vivienne è la luce che Eliot non ha saputo accettare.
Merini è la luce che nessuno ha voluto vedere, finché non era troppo tardi.

Nel cuore di entrambe, la poesia. Non come mestiere, ma come linguaggio primordiale. Un linguaggio che non si piega, che non si adatta, che non chiede il permesso. Un linguaggio che prende il corpo, lo apre, lo ferisce, lo consacra.

E allora bisogna riscrivere la storia:

Eliot non è il genio puro, ma il prodotto di un furto simbolico.

Il manicomio non è lo sfondo della follia, ma il palco dell’ingiustizia.

La disabilità non è sempre deficit: è spesso una forma di stigmatizzazione sociale, una condanna inflitta a chi rompe l’ordine, a chi vive troppo, a chi ama senza cornice.

Vivienne e Alda non erano vittime.
Erano
 messaggere.
La società non le ha capite, e allora le ha cancellate.
Ma i loro corpi, i loro versi, le loro grida,
 sono ancora qui.
A ricordarci che la vera follia è la norma, che la vera disabilità è la cecità sociale,
e che
 la poesia, quando nasce da una donna libera, è la forma più alta di insurrezione.


Mr. Nobody di Jaco Van Dormael

di Riccardo Bernini

Mr. Nobody è il film che sembra non avere nulla a che fare con la disabilità, e invece la rivela come esperienza estrema: non più mancanza, ma eccesso. Nemo Nobody non dimentica nulla, e proprio per questo non riesce a vivere. In termini clinici, la sua condizione si avvicina a quella che la neurologia chiama ipertimesia o sindrome dei super-ricordi (Highly Superior Autobiographical Memory), fenomeno rarissimo che comporta la capacità di rievocare in modo minuzioso e ossessivo ogni dettaglio della propria esistenza. Non un dono, ma una condanna: l’impossibilità di lasciar andare, l’impossibilità di dimenticare.

Certo, nel film di Jaco Van Dormael questa ipotesi scientifica è forzata, perché la trama non vuole descrivere un disturbo reale, ma piuttosto aprire lo spazio immaginario delle vite possibili, delle biforcazioni infinite dell’esistenza. Tuttavia, è proprio in questa forzatura che Mr. Nobody entra a pieno titolo nella riflessione sulla disabilità. Perché la disabilità, troppo spesso ridotta per ignoranza a un cliché cinematografico o letterario, non è mai soltanto deficit: è sempre differenza. E ogni disabile è unico, irriducibile, come ogni etero dotato è unico nella propria specificità.

Il film mette in scena questa specificità radicale: la memoria come luogo dello scarto. Nemo non ricorda secondo un ordine lineare e cronologico: ricorda come eccedenza, come frastagliatura, come precipitato. La sua memoria non è archivio, ma magma che si espande in tutte le direzioni, che genera biforcazioni, deviazioni, specchi infranti. È la memoria stessa, ciò che rende l’essere umano capace di esistere, di esistersi e di resistersi, a trasformarsi in fragilità e in limite.

È qui che si misura la disabilità di Nemo: non nel corpo, ma nel passo zoppo della mente che non sa amputare, che non sa sottrarre, che resta prigioniera del troppo. Una memoria che non dimentica è una memoria che paralizza. Nemo è costretto a vivere nello spazio impossibile dell’eccesso, nello scarto infinito di tutte le vite possibili che non diventano mai vita.

Mr. Nobody diventa così parabola di disabilità altra: non la fragilità del meno, ma quella del troppo; non la perdita, ma l’impossibilità di liberarsi. Nemo Nobody è il disabile della memoria: l’uomo che non può scegliere perché ricorda tutto, e ricordando tutto lo ricorda come ferita, come specchio che non si richiude.


 


 


 




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