MARIE HEURTEIN di Jean Pierre Ameris 2014
di Riccardo Bernini
Il film trae ispirazione da una storia vera: si tratta di un film biografico incentrato su un personaggio di Marie Heurtin (1885 – 1921). La vicenda ricorda moltissimo la storia di Hellen Keller, personaggio assai più noto per via della bellissima opera teatrale di William Gibson che, poi realizzerà anche la sceneggiatura per il film omonimo diretto da Arthur Penn. La cosa che le due storie hanno in comune è, di fatto, la disabilità delle due protagoniste – entrambe sordocieche – ed il fatto che le vicende narrate rispettano, nell’economia di un’opera, necessariamente, romanzata, i fatti come accaddero realmente.
Ciò che risulta, invece, totalmente diverso è l’ambiente del film e lo sviluppo psicologico dei personaggi: i genitori di Hellen Keller sono molto ricchi e, mediamente colti, possono contare su molti mezzi e Annie Sullivan, la maestra educatrice rappresenta il meglio che la società dell’epoca e i soldi potessero permettersi. Con l’aiuto della Sullivan Hellen si potrà iscrivere all’università e laurearsi – muore nel 1968 a ben 87 anni di età ed assisterà persino il film che la vede protagonista, si potrebbe quindi dire che il ruolo della provvidenza nella riduzione cinematografica di Penn è sostituito dalla determinazione laica della Maestra.
Tutt’affatto diversa è la vicenda di Marie, di cui io stesso non sapevo nulla fino alla visione del film: la sua famiglia è assai povera e molto devota, la mamma ed il papà non sanno che fare e decidono di portarla presso un convento di suore che si occupano, in particolare, di bambine e bambini sordi. La storia si svolge, come il suo controtipo americano, nella seconda metà dell’Ottocento, ma definire la storia di Marie Heurtin un gemello di Anna dei miracoli sarebbe riduttivo, si tratta, in effetti, di una storia con un impianto e intenzioni diverse: oltre a Marie troviamo la sua educatrice e sostenitrice nella lotta Suor Marguerite. La differenza fondamentale risiede nell’impianto generale del film. La pellicola si inscrive nel genere religioso e il regista non nasconde affatto la volonta’ di mostrare come la forza della fede muova i passi di Suor Marguerite: la bambina, inizialmente riluttante ad essere educata – ci viene presentata infatti come una furia difficile da abituare ad una vita di relazione, anche perché chiusa in un isolamento di silenzio ed oscurità. Il modello educativo della suora si avvicina molto a quello di Annie Sullivan: il contatto con le mani ed il linguaggio dei segni, ogni cosa ha un nome.
Bisogna ammettere che il film è veramente molto ben fatto e ci mostra i progressi di Marie ed, insieme, il rapporto che si sviluppa fra maestra ed allieva. La nostra suora non si arrende mai ed il regista ce le mostra come donna di fede ma anche nel suo aspetto più umano, non intende fare segreto del fatto che la donna si è molto affezionata a Marie e che, dice lei: “Marie è la mia luce, la mia vita”, sottolineando anche, e quasi, un amore esclusivo, salvo poi farci capire che la mano di Dio è ovunque e quell’umanità che scorgiamo fa parte di un disegno piu’ ampio.
Un vero peccato che la storia di Marie Heurtin non sia divenuta esemplare come quella di Hellen, ma forse è dovuto al fatto che ha passato tutto il resto della sua vita – muore a soli 36 anni – in quel convento divenendo lei stessa una educatrice ed aiuto per altri bambini sordociechi che si sono avvicendati negli anni fra quelle mura.
Phoebe in Wonderland di Daniel Barnz
di Riccardo Bernini
Un film davvero insolito in cui una vicenda familiare si intreccia col mondo del teatro e la favola. Queste le forze in campo: la vocazione teatrale e il mondo irrazionale di Alice Nel Paese delle meraviglie. Il film, di per sé, si rivolge ad un pubblico molto giovane – è stato presentato, a suo tempo, al Giffoni Film Festival e comunica con i codici del sogno – un’operazione che fa della metafora e del paragone la prima chiave di decriptazione e ricorda un po’ quelle storie Zen dove, non necessariamente, le cose devono significare ma, ahinoi, la società dà importanza all’uso della parola, forse più che al significato. La vicenda della piccola protagonista è legata proprio alla parola e ad un terribile handicap sociale – dei grandi geni come Mozart ad esempio – la Sindrome di Tourette. Il film è interamente giocato sul piano dei rapporti tra la protagonista e gli altri che invadono, più che accogliere, il suo sé ed il regista sembra volerci mostrare che ogni Io è un mondo. Lo scarto che mostra il film è quello fra Phoebe e gli altri: perfino i coetanei sembrano adulti che non capiscono il mondo della nostra eroina, vero, tutti tranne un amico, sensibilissimo, ed una insegnante di teatro.
Il film eccede davvero nella caratterizzazione, poco verosimile, dei personaggi, riducendoli a caricature, con scene che a volte rompono l’incredulità dello spettatore mostrando l’arte del mago che, per funzionare meglio, ha da stare nascosta; in questo il film non tiene il confronto con altre opere cinematografiche finendo col risultare un poco televisivo. Il rapporto genitore-figlio sembra preso con troppa indifferenza ma, in vero, il regista ha, nelle intenzioni, un desiderio di identificazione tra i giovani spettatori e Phoebe, il cui universo e, personalissima, visione del mondo fagocitano tutto il resto; di questo è, senz’altro, consapevole l’insegnante di teatro che ha la chiave per entrare e devo dire che in questo caso, nella trattazione delle conseguenze della sindrome, il film ha i suoi pregi. Il film ha il messaggio, decisivo, che attraverso l’arte si può ritrovare anche una cita di relazione, quindi non si tratta di portare una maschera, quanto, piuttosto, di toglierla attraverso lo specchio di una finzione che riporta ad una realtà.
Il film ha il coraggio di mostrare, anche ad un pubblico giovane, il difficile rapporto con un intruso che ti influenza il comportamento ed il linguaggio – in effetti la pellicola illustra tutte le conseguenze, anche fisiche della Tourette, in questo il film non si censura affatto, a volte cristallizza il tutto in troppa metafora ma superato questo aspetto sono proprio i suoi eccessi ha risultare la cosa che rimane più impressa nello spettatore, questa volta anche adulto.
Il film resta un oggetto interessante, anche se si tratta di un’opera discontinua che fa a pugni con la tecnica ed i generi. La pellicola non è, infatti, riconciliata con la sua vocazione alla linearità: anche se risulta un film assai leggibile ha evidenti pretese autoriali, non levigate nella semplicità che vorrebbe il tipo di racconto e il pubblico a cui si rivolge.
Detto questo, si tratta di qualcosa di insolito, un modo originale di trattare un problema che è quasi sempre stato edulcorato da film televisivi di seconda qualità e possiamo dire che, fortunatamente, non è il caso questo film
Io mi chiamo Sam di Jessie Nelson
di Riccardo Bernini
Il film è un esplicito omaggio alla nuova Hollywood, è una pellicola dal carattere – inteso positivamente – didascalico e, insieme, apologetico. La storia è davvero molto ben scritta ed ah sfumature, indubbiamente, vicine alla favola ed al racconto esemplare. Il cast è composto, a parte Sean Penn e la Pfeiffer, da attori realmente disabili – anche se questa, rispetto al film è solo un’etichetta – il film ripercorre, idealmente, la traccia di un grande classico del cinema, tra l’altro, direttamente citato, proprio per bocca del protagonista: Kramer contro Kramer (1979) di Robert Benton; la trama di Io mi chiamo Sam prende spunto da questa pellicola per costruire un discorso sul valore della famiglia oltre il suo essere, ormai, quasi un simbolo, un ideale – divelto – verso cui tendere. La regista vuole mettere in chiaro che, anche se in un contesto atipico – eterodotato – la famiglia è il drappello a cui riferirsi quando ci attanaglia il dubbio.
Il film racconta la storia di Sam, un disabile di circa quarant’anni, il cui sviluppo mentale è rimasto quello di un bambino; il nostro si ritrova padre e, abbandonato dalla giovane compagna: “tu sei responsabile – dice lei dopo il parto – non io”, si trasforma in un padre amorevole, imperfetto ma tenero e pieno di sincero amore. Con l’aiuto degli amici le cose paiono andare avanti nel migliore dei modi, finché Sam non sarà costretto a lottare per l’affidamento della figlia: l’assistenza sociale vorrebbe, infatti, appalesare la sua incapacità di padre e offrire alla bambina un tipo di vita – a loro giudizio – più adatta per un animo così intelligente ed avido di sapere ma, allo stesso tempo, bisognoso di attenzioni, che con il passare del tempo, si faranno sempre più stringenti e, indubbiamente si presenteranno ostacoli sempre più ardui da superare.
Molto abilmente la regista ci mostra come tutti, a loro modo, abbiano una vita trapuntata di ostacoli. Il film mostra come tutto ruoti intorno al grande amore tra padre e figlia, qualcosa che gli eventi non potranno mai mutare.
La sola cosa che muta sono le circostanze esterne, ed incontrollabili: durante una desta per i sette anni della figlia un incidente, seppur innocuo, convince i servizi sociali dell’inadeguatezza di Sam. Per il nostro eroe inizia il “solo contro tutti” che, come contraltare a l’esempio del grande Dustin Hoffman – Kramer contro Kramer – è, in effetti, un film che Sam ha visto spesso con gli amici e cerca di trovare il miglior avvocato che possa aiutarlo a riavere la figlia vicino; Rita Harrison (Michelle Pfeiffer) sarà questo avvocato, una donna che ha una situazione familiare difficile ma non sa ancora accettare che a volte si può perdere qualcosa. Sarà lei stessa ad ammettere di aver guadagnato, dal suo rapporto con Sam, molto più di quanto lei abbia saputo dare: attraverso l’esempio di un padre e di una figlia che sono il simbolo di una unità familiare contro tutto e tutti, dove la sola cosa che conta è il più profondo affetto, i personaggi che ruotano attorno alla vicenda cambiano radicalmente la loro prospettiva sulla realtà.
Sicuramente il film va preso come un esempio da seguire, ripetiamo, un ideale verso cui tendere, spendo che, quasi sempre i film finiscono per anticipare uno stato di cose futuro
Il Ragazzo Selvaggio di François Truffaut
di Riccardo Bernini
Film a tema storico di Truffaut che ricorda nello stile I primi lavori di Eric Rohmer. La pellicola trae spunto dai diari dell’antropologo e medico Itard: il risultato finale avvicina il film ad un documentario che utilizza, esclusivamente, il punto di vista desunto dagli scritti del medico francese. Se, ce ne fosse bisogno, vediamo insieme la vicenda narrata in quest’opera: siamo nel 1800 quando presso il dipartimento francese dell'Aveyron un gruppo di cacciatori trovano un bambino nudo e allo stato brado, i cittadini di un piccolo villaggio decidono di accoglierlo anche perché il bambino, di per se’ suscita presto una grande curiosità presso gli abitanti ma essi comprendono ben presto di non sapere come trattare col ragazzo: in effetti è violento ed aggressivo, non articola una parola e tenta sempre di scappare, a chi si avvicina offre solo reazioni animalesche come di chi non sia mai stato contattato, ed, effettivamente, questo è quello che il film vuole farci intendere. L’interesse di Parigi per il caso si risolve con il ricovero del ragazzino presso un istituto per sordomuti – la convinzione è, come sempre, che non vi sia nulla da fare – e ben presto riducono la persona a soggetto di studio, in una visione illuministica l’approccio più umano al caso sembra il meno interessante. Il nostro eroe, il solo contro tutti, è proprio il Dottor Jean Itard; lui, per fortuna, non crede alla diagnosi di ritardo mentale avanzata di colleghi. Decide di instaura un rapporto con questo ragazzo selvaggio e si mette in testa che sia possibile educarlo; più il la relazione fra i due procede, più Itard comprende che il ragazzo, il cui nome sarà Victor ha una intelligenza produttiva e anche la capacità di distinguere il bene dal male.
Il film ripercorre una parte dell’iter educativo e parte della vita di relazione di Victor e, mi pare di aver capito, come per il nostro regista sia quella la cosa fondamentale su cui concentra gli intenti di questo suo lavoro – non è un caso che sia lui stesso ad interpretare Tardi – il contrasto fra natura naturans e natura naturata rappresenta l’effettivo nodo gordiano che ha interessato Truffaut: potremmo azzardare che gli interessi guardare con la lente dell’uomo contemporaneo (tenendo presente che siamo nel 1969) il secolo dei lumi e quelle sue sviste colossali provocate dall’eccessiva fiducia in quella ragione che, tanto spesso, è solo la razionalità data da una visione troppo euclidea della realtà.
Una conclusione può essere tracciata a partire dallo stile del film: un evidente omaggio al Cinéma vérité ove, è possibile scorgere, comunque, la mano autoriale attraverso, ad esempio, l’uso di una musica extra diegetica, in questo caso Vivaldi; bisogna anche notare che il regista vuole che lo spettatore sia parte in causa e si senta coinvolto nel percorso di quello che, a conti fatti, è un grande racconto morale sotto il segno di Jean Rouch, piuttosto che della Nouvelle Vague.