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CINEFORUM MARZO 2016

cineforum-marzo-2016

Schede film


La Famiglia Belier

di Riccardo Bernini

Commedia francese di enorme successo, diretta, con grande mestiere, da Eric Lartigau, la pellicola racconta la storia di Paula: una ragazza sensibilissima che vive in una famiglia di sordomuti. Paula è in grado di sentire e, in quanto figlia udente, aiuta i genitori ed il fratello a relazionarsi col mondo esterno. Paula ha sempre avuto il ruolo di aiutante ed ha, sempre, più o meno consapevolmente, soffocato i suoi desideri ed aspirazioni, sotto una fredda cenere. La fiamma è rimasta spenta sino a quando Paula ha scoperto di avere una voce unica, adatta al canto. Questo fatto rappresenta una vera e propria frattura fra Paula e i genitori e, qui sta anche tutto il senso del film ed, anche, il suo valore. Tralasciamo le, giuste, critiche mosse dalla comunità sorda francese al film – proprio perché usa l’espediente dell’identificazione del pubblico col personaggio (normodotato) – ed andiamo al cuore della questione: il film è capace di emozionare e non trascura di offrire momenti davvero divertenti. Il problema, semmai, sta nell’aver offerto un’immagine stereotipata, io direi caricaturale, dei non udenti.

Degli interpreti non si può dir nulla – tutti bravissimi – , più che altro, stupisce la scelta di attori udenti, se si esclude il fratello della protagonista, nella parte di sordomuti: il film non pretende al realismo più radicale, questo è certo; lontano da esempi di schiacciante verità come il bellissimo Le pays des sourds (1992) di Nicholas Philibert, il film si concentra, soprattutto sul rapporto della protagonista col mondo esterno – fatto d’amore per un ragazzo conosciuto a scuola, l’insegnante di musica, un’amica – e la paura di abbandonare la famiglia che ha sempre contato su di lei.

Ma ora che Paula vuole cantare, ha scoperto questa vocazione, nasce una sorta di incomunicabilità tra lei ed i parenti: la madre arriva a dire che non ha più una figlia, sperava che, pur udendo, sarebbe stata sorda dentro. Ancora una volta il film si rivela in tutta la sua debolezza, volendo essere, soprattutto, una commedia non approfondisce taluni approdi fondamentali come quello dell’avere un’anima sorda e ciò che questo significa rispetto ad un figlio udente in un contesto sordomuto.

Tutto si risolve in un finale efficacissimo dove si dimostra che il legame famigliare supera l’incomunicabilità.

Il film è, più che altro, rivolto agli udenti che non conoscono il problema e, nemmeno, ne hanno una vaga idea e, per questa ragione, è un esempio eccellente. Per coloro che, di contro, cercano di chiarirsi le idee questo film rappresenta qualcosa di già visto, per quelli che vogliono un esempio sordo duro e puro rimane l’insuperato Figli di un Dio Minore (1986) di Randa Haines – già presentato al cineforum –.


L’UOMO SENZA PASSATO

di Riccardo Bernini

L’idea che l’individuo esiste perché ricorda di essere esistito, nel tempo e nello spazio, come un Io, ha, ossessionato, cinema e letteratura: la concezione di una memoria che ritrova il tempo perduto ci è famigliare, anche senza scomodare Marcel Proust. Ma lo scrittore francese ci dice una cosa fondamentale: il passato è l’alfabetizzazione della memoria. Io, come persona, sono tale, solo grazie ai miei ricordi; se perdo la memoria di me sono, allora, una persona diversa? Da qui parte la riflessione che ci offre il capolavoro di Aki Kaurismäki, datato 2002 e vincitore del premio speciale della giuria al Festival di Cannes.

Un uomo perde la memoria in seguito ad un pestaggio, da quel punto in poi non esiste più come l’Io di prima, il principio identità-memoria si sgretola, sopravvive solo il meccanismo del linguaggio ma tutto il resto è scomparso.

Il regista costruisce un film sospeso in una realtà impossibile: un’opera che è più specchio delle reazioni umane che una storia precisa. Naturalmente, come accade, sempre, nei grandi film, le interpretazioni sono molteplici: la nostra si identifica con l’idea, chiara, di un tempo della memoria, non più ritrovato, che, anche se perduto, apre altri accessi e nuove possibilità. Certo, per una società immersa nel fare, la perdita di sé è come una porta che si chiude, in altri termini, uno svantaggio, un grave handicap, perché ci costringe a ricominciare da capo.

La pellicola di Kaurismäki ci vuole mostrare che ricominciare da capo ci offre l’occasione di essere persone migliori e che, da un male – dalla radice più reietta della società – , nasce il bene; nella visione del nostro autore l’inferno è lastricato di giudizi gratuiti dove si aggredisce l’altro, lo straniero e poi si fanno domande: la lama sottile del pregiudizio è sempre pronta, chi non si ricorda più di sé, per un attimo, si spensa e non trova più i mezzi per difendersi, quel passato che si è costruito non funge più da scudo. Lo smemorato torna un bambino naïve e, tutto intorno a lui, rinasce ogni cosa come fosse la prima volta.

La chiave fondamentale è l’amore, un sentimento vero aiuta a ritrovare il filo ma, secondo questa storia, se il passato si ritrova, si perde di nuovo. Il film ci indica la direzione verso cui andare: non ha senso ritrovare una personalità che non ci appartiene più. Una volta che riusciamo ad accettarci nella nostra, nuova, condizione non ci riconosciamo più nello specchio del nostro vecchio Io.

Il regista finlandese ci offre una grande lezione di vita: il tempo ritrovato, non sempre, è, veramente, ancora nostro, a volte ritrovarsi svuotati ci spinge a cercare risorse che non avevamo potuto scorgere, intenti, tutta la nostra vita, ad indossare le medesime maschere.

Il tutto si può leggere come una rinascita, originata da un bivio, apparentemente più stretto e oscuro ma con, al fondo, una luce più luminosa è ricca di possibilità e di infinito.


STILL ALICE

di Riccardo Bernini

La parola “Still”, nel titolo, può avere, in inglese, due significati principali: “ancora” o, anche, “immobile”. La scelta dei due registi, di cui uno – Richard Glatzer – affetto da SLA, non mi è sembrata casuale. Qualcuno che vive sulla propria pelle la condizione di “Still”, in tutti i sensi, non poteva che rimanere catturato dalle pagine dell’omonimo romanzo di Lisa Genova. Secondo la storia: una studiosa, neurologa e linguista, Alice Howard, ha sempre contato molto sulla sua mente e le proprie capacità; durante una conferenza, però, ha un momento di afasia e perde una parola che, fino a ieri, conosceva benissimo. Lei non può saperlo ma, quello, è il primo segno di una terribile malattia degenerativa: il morbo di Alzheimer.

La nostra protagonista comincia a perdere contatto colle parole ed, insieme, dimentica nomi e volti ed è struggente vedere come, nonostante tutto, sia travolta da momenti di consapevolezza che la dilaniano come in un supplizio. L’handicap esiste ed è tutto intorno a noi, si tratta, soprattutto di qualcosa che riguarda il rapporto del (dis)abile con la famiglia – quando la famiglia c’è o riesce a lottare accanto a chi sta vivendo una situazione, in questo caso, irreversibile – il film è interessante proprio perché di concentra sulle reazioni umane e mostra come la percezione dell’altro muti al mutare della sua condizione fisica o mentale. Nel caso della protagonista l’impatto è devastante: i famigliari subiscono una fortissima scossa, era Alice il fulcro attorno a cui tutto ruotava, la mamma e la moglie sempre puntuale, la mente organizzativa.

Il film ci mostra, così come il libro, una lezione d’amore e di coraggio dove, nonostante tutto, la protagonista resta attaccata a tutti i suoi ricordi ed ai nomi che, inesorabilmente, svaniscono. Il tema fondamentale si ancora intorno al problema, eterno, di cosa costituisca una identità personale, la, già evocata, lezione proustiana sui ricordi che determinano il nostro essere umani, in toto, evidentemente, non può bastare, è solo una parte dell’equazione; certo, il tempo è perduto per sempre, allora, bisogna cambiare prospettiva, capire che: il mestiere di vivere rimane un mistero ma, chi vive, rimane se stesso, momento per momento, sono gli altri, quelli che ci hanno conosciuto nel tempo, a non riconoscerci più ora che siamo, diversamente, noi stessi.

Sull’interpretazione, vediamo cosa dice Marzia Gandolfi nella sua recensione: “Julianne Moore, misurata ed essenziale, corpo fragile che annaspa, provando a risalire la china e a resistere alla malattia che disattiva la sua anima segreta. Il dramma della protagonista germoglia e progredisce sul volto della Moore, a cui i registi consegnano il film senza contraddirla mai. Perché l'attrice produce un dosaggio perfetto di segni espressivi, che conferma il suo stile recitativo introverso e privo di manierismi. E il pubblico in sala non può che elaborare quello che l'interprete fa e dice. 
Se il cinema è un territorio inevitabilmente relazionale, Julianne Moore è il punto più intenso della relazione, una luce di evidenza e di chiarezza, che narra e fa conoscere allo spettatore una patologia crudele. Una crepa intima che spezza vene e cuore nella sequenza in cui Alice, riprodotta (sul computer) e 'accesa', parla al suo sé alterato e spento. La malattia al cinema è materia che richiede di connotare le proprie storie di uno spessore nuovo (quello dell'etica) e di una nuova articolazione narrativa. Glatzer e Westmoreland si prendono il rischio e realizzano un film che elude qualsiasi forma di patetismo o di esibizionismo, interrogandosi e misurandosi col dolore muto e ingrato dell'Alzheimer. E la loro esposizione artistica finisce per proteggere la nostra fragilità, riconnettendo in una storia dotata di senso, i frammenti sconnessi di esperienza contro cui ci fa sbattere duro la vita. Proprio come fa Lydia (la figlia di Kristen Stewart) con la madre, 'curandola' con la letteratura drammatica. Perché la memoria del bello agisce sui circuiti emozionali, che irriducibili e sbalorditivi sopravvivono a quelli cognitivi. Probabilmente l'amore non impara mai a dimenticare.”


UN SILENZIO PARTICOLARE

di Riccardo Bernini

Certamente un documento molto interessante: non può dirsi un film, non si può dire che sia un documentario tout court. È più simile ad una questione privata che si vuole condividere. Stefano Rulli, il regista, è anche padre del ‘protagonista’, Matteo, giovane affetto da una rara forma di schizofrenia. Non si potrebbe nemmeno definire Matteo un protagonista. Il filmato ripercorre, attraverso immagini di repertorio familiare, la crescita del giovane Rulli, ma al centro del documentario c’è la visita alla Città del Sole: “si tratta – lo spiega Stefano Rulli stesso – di un agriturismo in cima al Monte Peglia destinato ad ospitare tutte le diversità. Da anni mi occupo di progetti di vita per le problematiche mentali. Con mia moglie, Clara Sereni, abbiamo creato un agriturismo, La Città del Sole, un luogo aperto a tutti e che ospita anche persone affette da un disagio mentale. Ovviamente La Città del Sole parte da un’esperienza personale mia e di mia moglie, e dal nostro rapporto con Matteo. Da lì abbiamo creato una fondazione per fare esperienze di integrazione sia per il tempo libero che per il lavoro. Ci sono vari progetti fra cui uno che riguarda la residenzialità, di cui fa parte Matteo, non in case famiglia ma all’interno di un gruppo di persone che hanno altri tipi di difficoltà, sociali, economiche. È un modo per far sì che i “normali” ti diano delle idee, e non solo solidarietà.”

Matteo, il padre e la madre fanno vista a questo agriturismo che, fin dall’inizio, viene indicato come una metafora della città lumeggiata dal filosofo Tommaso Campanella. A Stefano Rulli va il merito di non aver ritoccato nulla attraverso un montaggio che edulcorasse le reazioni impreviste di un figlio il cui unico desiderio è quello di tornare a casa, allontanarsi dal troppo sole di questa città che riunisce tutti questi diversi. Capiamo che Matteo vive solo per se stesso: ha problemi a relazionarsi con gli altri, altri di cui, però, vuole sempre sapere il nome – già, perché i nomi sono importanti, molto importanti… ma non sono solo gli altri a costituire un problema: per Matteo è difficile rapportarsi anche con i genitori, la madre, Clara, è una persona con cui il figlio non vuole avere relazione alcuna, si comprende che lui nutre un astio immenso nei suoi confronti, il padre è più tollerato ma viene comunque maltrattato, a volte in modo violento e, lo dico, perché il filmato non lo nasconde: anche quando gli viene chiesto di svolgere un piccolo lavoro Matteo è infastidito, desidera solamente la propria solitudine e ogni evento esterno lo turba profondamente.

Il film sembra quasi voler contrapporre diverse condizioni umane a quella di Matteo evidenziandone l’incapacità ad adattarsi alla vita quotidiana, una cosa che il ragazzo aborrisce: in questo senso ricorda la scena in cui, dopo cena, i genitori vogliono cantare con gli amici, Matteo vuol rompere quell’armonia perché esige di controllare tutto e ricondurlo al suo ordine mentale, l’unico che abbia valore.

Le considerazioni, in forma di commento fuori campo, di Stefano Rulli hanno un valore quasi apotropaico, si sente chiaramente il desiderio di stabilire con questo, amatissimo, figlio un dialogo che non c’è, forse, mai stato realmente. Si capisce molto chiaramente che il padre si ritiene responsabile, ritiene di non aver fatto abbastanza per trovare la chiave d’accesso. Il documento è, allora, anche leggibile come una sorta di video-lettera ad un figlio che non vuol essere letto e per cui non esiste, ancora, un decodificatore.

Un film che serve più ai genitori di Matteo, in particolare al padre, per chiarire se un figlio schizoide sia qualcuno a cui si può dare fiducia o, se, un “dopo di noi”, a queste condizioni, sia mai possibile. A noi spettatori resta la consapevolezza di aver visto una giornata nella vita di Stefano Rulli, un padre che deve ancora ristabilire un dialogo interrotto dentro una anafase della sua ‘carriera di padre’, ma queste sono solo le considerazioni, in libertà di un critico, per capirci qualcosa bisogna aver vissuto, più di quei 75 minuti, nella vita di Matteo.




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